Un modo di guarire

Intervento al Convegno dell'Intercartel dell'Ecole de la Cause freudienne su Gli effetti terapeutici dell'esperienza psi­coanalitica, Milano 1983. Pubblicato in francese in Analytica n.35, Navarin Editeur.


Amelia Barbui


Eysenck doveva avere le idee chiare per quanto riguarda il concetto di guarigione in psicoanalisi visto che riuscì a costruirvi una statistica. Ma i suoi criteri valgono quel che valgono e, ai nostri occhi, se abbiamo scelto di occupare la difficile posizione di psicoanalisti, valgono veramente poco.

D’altra parte, se interroghiamo gli psicoanalisti, dobbiamo almeno riconoscere che il concetto di guarigione non è problematizzato in quanto tale, vogliamo dire, nella sua essenza e nel suo significato.

Certo si parla di desiderio di guarigione, ma si mette in guardia dal fatto che può essere una trappola della resistenza. Una remissione dei sintomi troppo repentina segnala l’intenzione di non procedere oltre. Per di più, i clamorosi successi terapeutici inducono sempre il sospetto di aver fatto leva sulle risorse illecite della suggestione.

 

Il successo terapeutico: una trappola.

 

Se ci riferiamo a Freud, vediamo come ci ponga di fronte ai termini più problematici della questione. Non possiamo fare a meno di pensare alla “anziana signorina” della Lezione 32 dell’Introduzione alla psicoanalisi, che fu tormentata per quindici anni da sintomi che la escludevano da una piena partecipazione alla vita. Dopo una felice analisi, fu liberata dai sintomi ma non poté dirsene felice, perché … era passato troppo tempo e non aveva più l’età in cui ci si dedica alla vita nel senso in cui, precisamente, i sintomi le impedivano. Insomma, era troppo vecchia. E così, appena liberata dai sintomi si guastò la vita con una serie di guai e di incidenti: si ferì un piede, si slogò una caviglia, si fece male a una mano, e così via, finché non si placò nella rassegnazione. La nostra anziana signorina dovette, in qualche modo, rassegnarsi alla propria guarigione perché, dopo l’analisi – scrive Freud – non era più capace di rifugiarsi nella malattia. E’ uno di quei casi in cui la guarigione non viene come una benedizione.

Per rimanere sui classici, Glover è dell’idea che dell’efficacia terapeutica è meglio non parlarne. Per carità.

Lui, ossessionato dai criteri di standardizzazione, lui che si dedicava alle inchieste statistiche non meno di Eysenck, nel suo articolo sui Criteri terapeutici della psicoanalisi, riesce a fare un catalogo di minima che, dai criteri metapsicologici a quelli psicopatologici a quelli metodologici, esprime esplicitamente il rifiuto del criterio di guarigione. Il che non lo lascia senza risorse perché – lo cito – “Avendo escluso il fattore dell’efficacia terapeutica, ci restano circa ventiquattro fattori principali per tentare una definizione o standardizzazione della terapia psicoanalitica”. Abbiamo così ben ventiquattro fattori, cosa volete che conti uno in più, la guarigione, per definire la terapia psicoanalitica.

 

Dalla suggestione alla religione

 

Ancora classici: Fenichel che ha certamente le idee più chiare. Nel capitolo sulla Terapia e profilassi delle nevrosi, nel Trattato, innanzi tutto se la prende con quanti asseriscono che gli psicoanalisti giurano solo sul proprio metodo, poiché, dopotutto, anche le altre forme di psicoterapia hanno i loro diritti. Ma il resto del capitolo è dedicato alla demolizione di queste psicoterapie. Attacca le “terapie del consiglio” fondate su pretese misure razionali fisiologiche. Critica gli ipnotizzatori che reprimono i sintomi, e così via. Se avesse scritto oggi il suo Trattato avrebbe potuto sbizzarrirsi molto di più, vista la grandiosa efflorescenza di tecniche psicoterapeutiche, dall’autoipnosi a Rajanesch. Il denominatore comune è sempre lo stesso: la suggestione. E Fenichel non mancava di riconoscerlo. “I miglioramenti dovuti al transfert psicoterapeutico – scrive – possono essere ottenuti nella stessa maniera: se il paziente è un “buon ragazzo” e non si comporta nevroticamente, sarà amato, protetto e “parteciperà” della potenza del medico; se non obbedisce, deve temere la vendetta. In questo senso, lo psicoterapeuta è in buona compagnia: utilizza gli stessi mezzi di persuasione usati da Dio. E uno psicoterapeuta di questo tipo è in realtà vicino a Dio” o – aggiungiamo noi – a un pastore d’anime, ma non certamente a quella nuova categoria di “pastori d’anime laici” che – come sottolinea Freud – “non hanno bisogno di essere medici e non possono essere preti” o cristiani – come aggiungerà giustamente Pfister. [1]

“La medicina in generale –prosegue Fenichel – e la psicoterapia in particolare, sono stateper lungo tempo il regno dei sacerdoti. E spesso lo sono ancora oggi. Il potere salutare di Lourdes o di una confessione cattolica è ancora di un ordine più alto di quello di uno psicoterapeuta medio”.

Fermiamo qui questa citazione perché ci sembra che Fenichel ci abbia messo sulla strada giusta in quanto non possiamo fare a meno di pensare a quanto scrive Freud sulla funzione terapeutica della religione: “La credenza religiosa soffoca le nevrosi”. Le sue riflessioni sul fatto che la religione preserva dalle nevrosi, dunque, si impongono.

“E’ naturale che qui, nella terapia, - scrive a Pfister – le nostre strade si dividano. | …. | Sul problema terapeutico devo esprimermi con chiarezza. Lei naturalmente ha ragione, in quanto pastore d’anime, a chiamare in soccorso tutte le truppe ausiliarie di cui dispone. In quanto analisti noi dobbiamo essere più riservati, e far cadere l’accento principale sullo sforzo rivolto a rendere il paziente autonomo, il che spesso torna a danno della terapia”.

Ma, nulla salus extra ecclesiam e anche se Freud sottolineerà a più riprese come intenda in modo diverso il concetto di terapia, si troverà a fare i conti con la Chiesa cattolica.

Qualche mese fa, nuovamente, il Papa si è “accorto” che la psicoanalisi sta facendo una concorrenza sleale alla Chiesa e ha ribadito la sua condanna  per coloro che ha definito, con l’espressione di Ricoeur, “i maestri del sospetto”: Marx, Nietzsche, Freud.

 

Quale guarigione?

 

Non gli si può dare torto se ricordiamo ciò che Freud rispose a Laforgue che gli consigliava di lasciare l’Austria. “I nazisti? Non mi fanno paura. Mi aiuti piuttosto contro la mia grande nemica, la religione, la Chiesa cattolica”.

Se Freud era costretto a pronunciarsi così data la violenta campagna antipsicoanalitica promossa dal clero austriaco al seguito di padre Schmidt, in Italia il clero difese in modo ancora più efferato e violento il monopolio della guarigione, inteso naturalmente in modo diverso da come lo intendeva Freud. E il terreno era particolarmente favorevole, soprattutto per la presenza di padre A. Gemelli che, allievo di Kreapelin e studioso di psicologia, aveva tutte le armi necessarie per affrontare il problema dall’interno e per ricondurre le punte sovversive della psicoanalisi a un rango che potesse essere accettato dalla Chiesa. Fondandosi dunque sulle discriminati, inizialmente poste da Dalbiez, procedette a separare il metodo freudiano dalla dottrina.

Gemelli considerava parte della dottrina innanzitutto ciò che indicava come monogenesi sessuale della nevrosi, cosa in fondo prevedibile. In secondo luogo attaccava i fondamenti del determinismo freudiano che sottrae l’uomo alla propria responsabilità di fronte alla colpa oggettiva. Si scagliò poi contro l’indiscrezione dello psicoanalista che viola ogni segreto dell’animo umano, attraverso la regola dell’associazione libera.

D’altra parte, però, Gemelli salvò sempre il metodo terapeutico che, in quanto tale, una volta epurato, era degno di figurare accanto alle altre forme di psicoterapia. “Ciò è avvenuto in America – scrive nel 1947 – dove gli psicoanalisti si sono rifiutati alla ‘contaminazione’ filosofica che caratterizza la dottrina di Freud e l’hanno accettata trasformandola”. [2]

In questi primi anni ’50, anni in cui la psicoanalisi comincia a prendere piede, anche il Papa Pio XII è costretto a scendere in campo per pronunciarsi su ciò che è o non è accettabile della psicoanalisi. Formula dei precetti su ciò che è da evitare per quei cristiani che si occupano di psicoterapia. I precetti, senza avere in sé una chiarezza univoca, manifestano comunque una fondamentale legittimazione delle pratiche psicoterapeutiche, ivi compresa la psicoanalisi. Pio XII era più possibilista di Gemelli.[3]

Non si è più infatti in quella situazione in cui, nel ’34, Freud esprimeva, in una lettera a Zweig, le sue preoccupazioni per quel rigorismo cattolico che aveva condotto a proibire l’uscita della “Rivista italiana di psicoanalisi”. A partire dagli anni ’50, la Chiesa mette in atto una politica volta a riprendere il terreno perduto e i figli perduti.

Proprio questa operazione dall’interno, che prende il posto della mera opposizione, darà alla psicoanalisi italiana quell’impronta di “scienza morale applicata alla vita” che, se fu evidente sotto la penna dei divulgatori, non contribuì di meno a darle, nei circoli specialistici, il conio di “psicoanalisi applicata”, ora all’occultismo, ora alla letteratura, ora alla morale, e che impedì uno sviluppo della psicoanalisi su un terreno proprio.

Si è avuta così una psicoanalisi religiosa – sotto le spoglie di una psicoanalisi applicata – sufficiente in sé a contraddire l’indicazione di Lacan. “ Ho tentato di contrastare tutto ciò – dice ancora il 18 marzo dell’80 – affinché la psicoanalisi non sia una religione, cosa a cui tende irresistibilmente dacché ci si immagina che l’interpretazione operi solo attraverso il senso”. [4]

 

Freud e Lacan ci hanno sempre ricordato che dove avesse trionfato la religione la psicoanalisi avrebbe dovuto soccombere. Se in questo primo match, in Italia, la religione ha avuto la meglio, ciò è stato perché è riuscita a portare il confronto dal terreno teorico scientifico a quello ideologico politico.

Tutti i termini chiave della psicoanalisi vengono così assunti in un’ottica deformante: basti pensare cosa piò esserne dei concetti di colpa, di mito, di rituale, di sublimazione e di quello che qui ci interessa, di guarigione.

In fondo Wojtyla non ha torto a richiamarsi con la sua espressione a Ricoeur, cioè all’ermeneutica.

Le ambiguità di fondo della posizione della cultura cattolica italiana rispetto alla psicoanalisi, le sue oscillazioni, i suoi tentennamenti, che si nascondono dietro un rifiuto di rifiutare, nascono dal tentativo di rendere “non avvenute” le puntate sovversive e di rottura della psicoanalisi per riassorbirle in un humus che, una volta rinunciato alla sessualità e alle pretese di realtà dell’ipotesi, la ritrascinano nel campo del puro possibilismo ermeneutico. Non fu forse così per Galilei e Copernico? Finché si trattava di una ipotesi di calcolo tutto andava bene. Ma quando Galilei pretese che le cose stessero veramente così, e allora, apriti cielo!

Si può obiettare che ora si sta riabilitando Galilei. Non vorremmo trovarci fra trecento anni a venir riabilitati, dopo aver fatto troppe concessioni al cattolicesimo. [5]

 

Lo statuto della verità

 

La guarigione, come sottolinea Fenichel che non fa che riprendere la posizione di Freud, è qualcosa che trova il proprio senso pieno nel campo della religione. E’ forse per questo che Lacan sottolinea, non senza ironia, che “un cattolico, veramente formato nello spirito del cattolicesimo, non è analizzabile”. Un vero cattolico è talmente impegnato nella via soteriologica che la psicoanalisi può toccarlo solo di striscio. E finché la psicoanalisi poggerà le sue basi sul terreno minato della religione non potremo, in nessun modo, porci seriamente il problema degli effetti terapeutici dell’esperienza psicoanalitica. La salvezza eterna surclassa ogni temporanea remissione dei sintomi.

Finché la psicoanalisi in Italia sarà costretta a poggiare le sue fondamenta sul terreno ideologico della promessa di un al di là trascendente, non ci sarà modo di aderire al terreno aspro e senza appigli in cui il reale gioca come momento centrale del problema dell’angoscia e della castrazione.

Immaginiamoci la polarità oppositiva di due sistemi; uno dove la guarigione è un effetto accanto agli altri, in sovrappiù, ed è quello di Freud e di Lacan; l’altro dove l’asse soteriologico porta tutto il peso della dottrina, ed è la religione cristiana.

 

Ci si compiace spesso di paragonare il movimento psicoanalitico a un movimento religioso con scismi, eretici, apostati, fanatici. Questa profonda idiozia, che può reggersi solo sul totale misconoscimento dei presupposti della psicoanalisi, si trova a essere vera nei fatti poiché ci si dimentica di quella critica costante, cui Lacan ha voluto dare un posto negli statuti del ’64, e si scende a patti con la verità.

La verità …, quale miglior viatico per la religione. Non è proprio qui che psicoanalisi e religione diventano la stessa cosa se ci si dimentica che la prima l’ha come causa materiale e la seconda come causa finale?

Quando Lacan vide le cupole di S. Pietro non poté fare a meno di esclamare che sicuramente avrebbero vinto loro, perché loro hanno tutto da promettere; la fede, la speranza, la carità, la salvezza e, infine, la guarigione. Freud non aveva forse detto, nella Storia del movimento psicoanalitico, che l’umanità farebbe di tutto per liberarsi dal giogo della sessualità? E chi meglio della Chiesa può garantire questa liberazione? La Chiesa per duemila anni non ha fatto che parlare di sesso, rassicurandoci che per  gli angeli non fa problema.

Tutta la differenza sta in questa piccola sfumatura: che per la dottrina cristiana si esiste come soggetto, ci si incarna in un corpo sessuato da cui ci si libererà. Soggetto e sesso non sono immediatamente lo stesso. Questo lascia delle possibilità per la filosofia che può sgranchirsi le gambe nel prato contemplativo dove concepisce senza peccato.

Ma per la psicoanalisi non si è prima soggetto e poi uomo o donna. Le battute conclusive della metafora paterna, attraverso cui il soggetto si costituisce, mettono direttamente a confronto con la castrazione. Le illusioni, in caso, vengono dopo.

 

“Vinceranno loro – diceva Lacan, un giorno di pasqua, guardando le cupole di Roma – perché hanno gratificazioni da offrire; noi non ne offriamo nessuna”.[6] E il reale è pesante da sopportare se si nasce uomo o donna, cioè malati di linguaggio.

 

Vorrei concludere citando le parole di una lettera di Saba a Debenedetti, del 13 settembre 1929.

“Un giorno venne a trovarmi un amico e mi consiglio di tentare una cura psicoanalitica. Forse saprai che Trieste è la sola città d’Italia la quale possiede un medico che si occupi di cure psicoanalitiche: uno dei migliori allievi di Freud, e una persona meravigliosa: il dott. Weiss … la disperazione mi spinse a tentare.

Che cosa devo dirti, Giacomino mio? Un mondo nuovo apparve davanti al mio spirito: incominciai quello che Nietzsche chiamava (alludendo ad altro) ‘la caccia grossa’ nel regno della psicologia.

E devo dire, una volta per tutte, guarisca o non guarisca … , la psicoanalisi è una delle più grandi cose che siano state scoperte in questo secolo.”



[1] S. Freud, Psicoanalisi e Fede – Carteggio col Pastore Pfister, Boringhieri, Torino 1970

[2] R. P. Agostino Gemelli, La Psicoanalisi in Italia oggi, in “Vita e Pensiero” (1914-1964); e Narcoanalisi, psicoanalisi, metodi proiettivi di esplorazione rappresentano una lesione della libertà personale?, in “Ricerca della verità” 1950

[3] Cfr. L’Osservatore Romano del 16 aprile 1953; e R. P. Agostino Gemelli, La Psicoanalisi Oggi, Milano 1953

[4] Cfr. Quella Scuola è una Causa intervista di S. Romano a J.-A. Miller in “Il Messaggero” del 14 giugno 1981

[5] A questo proposito riteniamo determinante la presa di posizione del premio Nobel per la medicina Salvador E. Luria che ha rifiutato di partecipare al congresso che si è tenuto in Vaticano in presenza del Papa Giovanni Paolo II sul tema Scienze galileiane oggi: “ Trovo vergognoso e scandaloso che un congresso internazionale di scienziati vada a rendere omaggio a Galileo proprio in Vaticano. La chiesa fa il suo mestiere, ma per un uomo di scienza accettare questo invito significa sottomettersi a una rivoltante ipocrisia. In altre parole, non ho niente da dire sull’atteggiamento della Chiesa e del papa, ma ho moltissimo da dire su quello degli scienziati che si prestano ad operazioni simili”, in La Repubblica 8-9 maggio 1983. Riteniamo che questa affermazione non esprima solo un rifiuto politico ma che sia una indicazione etica e storica che per quanto riguarda la psicoanalisi non possiamo certo sottovalutare.

[6] Cfr. J. Risset, Nella rete del desiderio, in “Il Messaggero” dell’11 settembre 1981