Atto e sintomo

Intervento alle Journée de Printemps dell’Ecole de la Cause Freudienne, su L’acte et la repetition, 1987

Amelia Barbui

 

Lacan, nel Seminario sulla logica del fantasma, propone, come esempio di atto, quello di Cesare che passa il Rubicone. Una volta gettato il dado, non è più possibile ritirarsi, le sorti della Repubblica sono decise.

Un altro passaggio, non storico ma letterario, si è profondamente segnato nella mitopoiesi della lingua italiana: quello del muro di fuoco che Dante deve traversare prima di accedere dal Purgatorio al Paradiso. Di fronte all’esitazione di Dante, intimorito dalla prospettiva del “morso del fuoco” sulla carne viva, Virgilio sa trovare l’argomento giusto per smuoverlo: “Or vedi, figlio: tra Beatrice e te è questo muro”. Virgilio, la guida, conduce Dante attraverso l’ultima purificazione prima di dargli accesso all’oggetto di desiderio.

 

Una simile figura di guida, che introduce ai sommi misteri e al godimento della contemplazione, non è infrequente nella nevrosi ossessiva.

Il primo sogno fatto durante l’analisi da un ossessivo riproduce esattamente questa struttura.

Si vede mentre sale una lunga e ripida scala a chiocciola insieme a alcuni compagni di università (ha iniziato l’analisi in coincidenza con l’ingresso in università). Alla testa del piccolo gruppo c’è una figura anziana, potrebbe essere un docente, dall’aria ieratica e benevola, che fa cenno di seguirlo e avanza mostrando loro la via.

 

Tale allegoria d’iniziazione mistico-sessuale si precisa attraverso una serie di ricordi di copertura, emersi nel corso dell’analisi.

 

Il primo risale ai primissimi anni dell’infanzia. Ricorda che stava sul balcone di casa con la madre che conversava con una vicina, uscita sul balcone dell’appartamento adiacente. Anche il figlio, suo coetaneo, era uscito e si era messo a giocare con un vecchio giocattolo male in arnese: un trenino con gli occhi, il modellino di una locomotiva da fumetti che al posto dei fari aveva degli occhi e li muoveva quando le ruote giravano.

Fu talmente colpito da quel giocattolo che non poté fare a meno di rivendicarlo come suo. Tanto urlò e tanto pianse che la vicina tolse il giocattolo al figlio e glielo diede.

Una volta ottenuto, l’oggetto agognato diventò totalmente indifferente.

Nel raccontare il ricordo sente ancora vivo lo stupore che provò nel passare, dalla tensione esasperata del capriccio, alla sensazione imbarazzata di non saper che fare con quel trenino che, solo un istante prima, gli era sembrato la cosa più desiderabile del mondo.

 

Qualche dettaglio: il bambino cui contendeva il possesso del giocattolo – che aveva acconsentito di buon grado a privarsene – aveva lo stesso nome del padre del paziente, il cui cognome contiene il segmento “occhi”. Pochi giorni dopo suo padre gli regalò un trenino simile a quello desiderato che, naturalmente, non degnò neanche di uno sguardo.

 

Il secondo ricordo, di poco posteriore al precedente, risale all’età prescolare.

Un pomeriggio, a passeggio con il padre e la madre, passa davanti a un negozio di giocattoli nella cui vetrina è esposta una “bellissima” automobilina a pedali. Blocca tutta la famiglia davanti al negozio e incomincia la sua solita messa in scena di urla e strepiti. La madre cerca di trascinarlo via in malo modo, ma lui non cede. Aumenta gli strilli finché il padre, con aria benevola, non gli domanda se voglia davvero quell’automobilina. La sua risposta è affermativa. Il padre entra nel negozio e l’acquista.

Appena avuta la percezione che il padre stava facendo sul serio e che, una volta entrato nel negozio, avrebbe davvero comprato il giocattolo, sbigottito, si sentì disarmato: non aveva previsto che gli eventi avrebbero preso quella piega, e tanto meno aveva pensato che avrebbe potuto ottenere l’automobilina.

La sua vittoria fu tanto inaspettata quanto indesiderata e, invece dell’indifferenza nei confronti dell’oggetto ottenuto, sviluppo un vero e proprio odio. Accusava l’automobilina di tutti i difetti possibili, sostenendo che non funzionava. Non riuscì mai a farla andare e l’abbandonò nell’angolo delle cose dimenticate, come non l’avesse mai avuta.

 

Il terzo ricordo risale all’adolescenza. Ricorda che un giorno, conversando con il padre, si lasciò sfuggire un accenno a una cinepresa la cui pubblicità gli era capitata tra le mani in qualche giornale. Detto ciò, fu preso da un forte imbarazzo, o un vero e proprio turbamento. Si era reso conto che il padre aveva captato il suo accenno come un desiderio e che si apprestava a soddisfarlo. Puntualmente, come “temeva”, il giorno della promozione, ricevette in dono la cinepresa.

 

Questi tre ricordi chiariscono l’allegoria del primo sogno, ma gettano su esso anche una luce diversa.

Il padre non è solo la guida, il Virgilio che traversa per primo le fiamme allo scopo di aprire la via a Dante. Nella misura in cui cerca di esercitare la sua perspicacia per appagare i desideri del figlio prima che formuli qualsiasi domanda, come nel caso della cinepresa, sembra affetto da una particolare forma di cecità: non vede che la posta in gioco non è l’oggetto dichiarato e non riesce a occupare la posizione di rivale in cui il bambino cerca di collocarlo, come emerge dal primo ricordo.

 

La cecità non è senza rapporto con il carattere scopico dell’oggetto. Notiamo, in tal senso, il rapporto particolare che il paziente aveva, da bambino, con i fotografi e la fotografia.

 

Ricorda che un giorno, poteva avere 4 o 5 anni, sfogliando un giornalino a fumetti trovò una rubrica che pubblicava le foto dei piccoli lettori. Pensò che sarebbe stato bello se anche la sua immagine fosse apparsa in quelle pagine. Ma, appena avuta l’idea, fu colto dal panico: pensò che se si fosse fatto fotografare, per apparire in quella rubrica, la sua immagine sarebbe diventata una foto e non avrebbe più avuto la normale esistenza in carne e ossa, accanto ai genitori. Avrebbe dovuto terminare i suoi giorni reificato tra le pagine di un giornaletto, prospettiva che, lungi dall’apparirgli attraente, gli provocava un’incontenibile angoscia.

Da quel momento fu impensabile solo l’idea di mettere piede da un fotografo: lo temeva più della morte.

 

Durante un periodo di vacanza invernale al mare, solo con la madre, accadde un fatto insolito. Ogni fine settimana il padre veniva a trovarli e, un sabato, mentre aspettava il padre, sentì nascere in lui un’idea. Aveva maturato una decisione di cui non volle rivelare nulla alla madre. Non appena il padre arrivò gli si presentò davanti e con determinazione gli comunicò il desiderio che lui, e nessun altro, lo accompagnasse sul lungomare per fare una fotografia.

Fu preparato e affidato al padre che – sono le sue parole – “mi strinse a sé, con la sua mano rassicurante, e mi condusse al luogo prescelto, dove mi feci ritrarre esibendo, per la prima volta, all’obiettivo un sorriso trionfante”.

In questo ricordo, come nell’allegoria onirica del primo sogno, la figura del padre introduce all’oggetto di desiderio, presentandosi come tutore, protettore, figura di mediazione che non consente, con la sua presenza, la pericolosa vicinanza all’oggetto scopico.

 

Anche il primo ricordo d’angoscia risponde a tale logica.

Si trova al cinema con il padre. Non sa quale film fossero andati a vedere, ma ricorda che prima dello spettacolo era stato annunciato, come imminente, un film il cui titolo rievoca ancora con terrore: “Macabro”. Le poche scene proiettate descrivevano una forza misteriosa e mortifera che si impadroniva di una città e i titoli di testa erano siglati dal simbolo orribile di “un teschio con le ossa incrociate”. Terrorizzato, si era aggrappato al padre che gli aveva suggerito di chiudere gli occhi. Cosa che fece, ma senza riuscire a calmarsi.

 

Tanto gli episodi riguardanti la paura della fotografia, quanto quello del cinema, sono alcune varianti di una stessa trama strutturale: essere sotto la minaccia dello sguardo, nel rischio mortale dell’annullamento.

Lo sguardo indiscreto e invadente riguarda la madre, descritta come curiosa e possessiva, rispetto alla quale aveva costantemente l’impressione di non potersi sottrarre al suo controllo e di poter essere colto di sorpresa in qualunque momento.

A questo proposito riporta il ricordo di un episodio della prima adolescenza. In quel periodo aveva sviluppato un rituale ossessivo che consisteva nel “farsi il segno della croce” prima di giocare, cosa che naturalmente teneva nascosta. Un giorno si accorse che, proprio mentre lo stava facendo, la madre lo spiava da dietro la finestra e, dopo un po’ di tempo, con sua vergogna, gli domandò perché lo avesse fatto. La madre, non solo vede, ma vuole far sapere che ha visto. 

 

Di fronte all’invadenza dello sguardo materno, il padre, chiamato in causa, ha due risposte. Una è: “Ci sono, eccomi”, la sua presenza rassicurante e benevola, la grande mano forte che lo stinge a sé, come nel ricordo della fotografia sul lungomare. L’altra è: “Fai come me … lascia fare”, come nel ricordo del trenino in cui il bambino, omonimo del padre, cede il suo gioco, e nel ricordo del cinema, in cui il padre gli suggerisce di chiudere gli occhi, risposta che il nostro paziente sente come insufficiente.

 

Un altro episodio, successivo alla nascita della sorella, esemplifica la carenza paterna e riconduce al primo sogno, mettendo in rilievo l’aspetto di ripetizione del transfert.

Sta guardando la televisione con i genitori. Il film narra la storia di una ragazza regolarmente sposata che, dopo essersi reca in soffitta con l’amico del marito, resta incinta. Il film termina con la drammatica rivelazione che il padre del bambino è l’amico del marito.

Dopo questo breve corso di educazione sessuale hollywoodiano, il nostro paziente, per ingenuità o per malizia – ricordiamo che trascorreva la maggior parte del tempo da solo con la madre, essendo il padre spesso via per lavoro – domanda al padre perché, se la ragazza viveva con il marito, il padre del bambino era l’altro uomo che si era visto con lei in una sola scena del film.

Il padre mostra di non apprezzare la sua computisteria sessuale e gli risponde che gli spiegherà la cosa quando sarà cresciuto. Ricorda di aver ripetuto tale domanda, con periodica meticolosa puntualità, pensando, ogni volta, di essere abbastanza cresciuto, senza mai ottenere dal padre il segno che gli riconoscesse il diritto di penetrare nel mondo dei segreti degli adulti.

 

Questa domanda, rimasta sospesa fin dall’infanzia, si riformula nel primo sogno raccontato in analisi e si rivolge all’analista. Saprà l’analista portarlo sulla soglia di quell’atto puro che il padre ha finto di non vedere e in cui culmina il Paradiso dantesco?