La dérobade masculine de l'impuissance

Intervento alle Journée d’automne - École Européenne de Psychanalyse et École de la Cause Freudienne su Le temps fait symptôme. 1993

Amelia Barbui

 

Svolgendo una consulenza psicoanalitica in un servizio ospedaliero che si occupa di casi di impotenza salta agli occhi quel che potremmo chiamare la negazione del kairos sessuale, esemplificata in modo paradigmatico da quei casi in cui le prove di erezione “in laboratorio” funzionano sempre, mentre all’atto pratico, di fronte alle donne, svaniscono.

Bergler, che per primo si occupò estesamente del problema, parlava di un “farsi rifiutare” in cui potremmo leggere la radice della pulsione di morte. L’idea centrale è che il soggetto si faccia rifiutare dall’altro negandogli qualcosa. Con il rifiuto provoca un rifiuto, esimendosi così dall’atto. È un quadro che prefigura, nel particolare, la logica analizzata da Lacan nell’anima bella: sottrarsi alla responsabilità dell’atto privilegiando l’ideale.

 

In modo più immediatamente fruibile sul piano clinico, cercheremo di evidenziare la debrobade maschile di fronte a un tipo di richieste femminili che vengono sentite come una sorta di stupro a parti rovesciate. In altri termini: farsi rifiutare per difendersi dalle donne.

La fenomenologia dell’impotenza presenta, il più delle volte, questa fuga dall’atto sotto forma di inibizione, ovvero di una tensione immaginaria volta a prevenire la realizzazione pulsionale.

Il tempo mancato della sessualità sigla l’inaccettabilità del fatto che non c’è rapporto sessuale: la copulazione è sottoposta alla misura narcisistica, trasformandosi così in prova insostenibile o in violenza.

 

È singolare osservare, per quanto concerne le caratteristiche proprie alla scelta d’oggetto, che la partner dell’impotente è, o una donna per la quale il sesso è un fastidio (identificata con la Madonna vorrebbe che il partner fosse lo Spirito Santo) o una donna che dichiara di poter godere esclusivamente con la penetrazione, il che, come imposizione di ideale, è lo stesso. La richiesta di prestazione va dall’attimo fuggente al tempo inenarrabile.

In entrambi i casi si tratta di una donna violentatrice che impone al compagno una funzione dalla quale questi di ritrae con l’incapacità.

La compagna dell’impotente veste i panni di un’aggressività esplicita o mascherata, del tutto complementare al sintomo. È come ci fosse un’intesa nel far esistere simbolicamente il rapporto sessuale cancellandone la realizzazione pratica.

La donna si presenta come figura di giudice, supposto sapere sul sesso, come colei che costringe a prendere le misure della funzione fallica e che, in ultima istanza, mette di fronte alla castrazione.

Una tale figura di donna stritola, a priori, le limitate esibizioni di prestanza fallica e viene per questo rifiutata. Per il soggetto non si tratta, infatti, di prendere una donna, ma La donna, figura totale, astratta, della cui inesistenza, almeno noi, siamo convinti.

 

Per l’impotente il problema consiste nel rifiuto di registrare l’assioma centrale secondo cui non è possibile formulare una scrittura in grado di esprimere il rapporto con l’altro sesso.

Il partner sessuale, come Altro della sessualità, è inaccessibile e l’amore, in fondo, supplisce a questa carenza sul piano pulsionale, segnando l’incontro con l’altro sesso dove manca il rapporto. Come precisa Freud, in La più comune degradazione della vita amorosa, proprio l’amore rende impotenti. Si ama la donna che non si desidera e si desidera quella che non si ama: amore e desiderio divergono.

Nella versione di Lacan, l’uomo e la donna si ameranno senza mai raggiungersi, come nel girone infernale in cui Paolo e Francesca, abbracciati nella indissolubile stretta, perpetuano l’illegalità della loro unione. O, come Giulietta e Romeo, si uniranno per sempre nella morte.

 

La realtà dell’incontro impossibile tra i due sessi è questo “morire insieme” che, sul piano del rapporto sessuale, si traduce nel mito dell’orgasmo simultaneo, perfetta illustrazione dell’ideale di chi, mirando al punto irrealizzabile dell’intesa sessuale, può solo prendere a proprio obiettivo l’unione fusionale orgiasticamente rappresentata: un modo di commemorare la relazione con la madre. L’ideale, in questo caso, ostacola l’appagamento pulsionale.

Il rifiuto dell’assioma secondo cui “non c’è rapporto sessuale” si fa dunque strada nella ricerca esasperata del “godere con l’altro” (simultaneità dell’orgasmo) anziché, come più praticamente si prefigge il perverso, godere dell’altro e per l’Altro.

 

Godere con l’altro è l’irrealizzabile, ma se è anche l’irrinunciabile, se è anche l’obbligo che, dall’altezza dell’ideale, impone di far esistere il rapporto sessuale, allora ci troviamo nella situazione dell’impotenza che può manifestarsi, per esempio, con delle erezioni intermittenti, o “quando non servono”.

 

Sul piano clinico ciò è facilmente verificabile; una delle cause più frequentemente invocate è “l’ansia da prestazione” in cui l’uomo deve dare prova di sé sul piano fallico. Deve essere all’altezza di soddisfare la donna e ciò implica la presunzione di un sapere sul desiderio dell’Altro, la cui certezza nasce dalla relazione con la madre. La scelta della compagna corrisponde sintomaticamente a ciò.

 

Messo a repentaglio dalla realizzazione pulsionale, per non svanire nella domanda dell’Altro, il soggetto si difende negandosi. È il caso di Claudio, un uomo di 40 anni, che da due anni ha periodi in cui l’interesse sessuale è diminuito. Il suo raffreddamento coincide con il momento in cui sua moglie ha iniziato a prendere la pillola anticoncezionale. Da allora il paziente sente i rapporti sessuali come un obbligo.

La moglie – donna decisa che non gli risparmia la derisione – ha reagito violentemente ai sui primi insuccessi e persevera nella richiesta di prestazioni sessuali (è lei che prende l’iniziativa) a tal punto che il paziente, se per un giorno non ha rapporti, è preso dall’angoscia e comincia a chiedersi cosa starà pensando la moglie che desidera, non tanto fare l’amore con lui, quanto piuttosto produrre in lui l’erezione.

La moglie non manca inoltre di confrontarlo con il di lui fratello che senz’altro è più bravo in campo sessuale, dichiarando esplicitamente di vergognarsi per il suo stato.

Lui, in cuor suo, spera che il sintomo abbia una base organica per poter così giustificare il diminuito desiderio ed essere esonerato dal fare l’amore, cosa che ormai è sentita come un “marcare il cartellino”.

Quando l’erezione viene meno la moglie ha scatti d’ira: abbandona il letto coniugale e se ne va sbattendo la porta. Lui si torva lì da solo e abbandonato, sta male e si sente disarmato; impotente in tutti i sensi della parola.

È chiaro, in questo caso, che la valutazione ricade su ciò che il soggetto ha, non su ciò che è. Finché il soggetto è apprezzato per una sua qualità, non ha alcuna certezza si essere valorizzato per quel che è.

Se l’assenza di rapporto sessuale si riflette sul piano narcisistico in cui è inaccettabile, l’impossibile si trasforma in impotenza: la necessità della prova pregiudica la prestazione.

 

Un riferimento di struttura, relativo all’impotenza, si trova dunque sul piano narcisistico della messa alla prova fallica: il rapporto è sentito come prestazione e l’atto sessuale come prova fallica.

Tale aspetto è illustrato dalla fenomenologia dell’osservatore esterno. Il soggetto, anziché abbandonarsi alle sensazioni che la vicinanza del partner può suscitare, si vede nell’ansiosa attesa dell’erezione, si domanda se ci sarà oppure no. Un bacio non è più un bacio, ma una prova di erezione.

Perché possa sorgere questa figura d’osservatore, che commisura la situazione con l’ideale su cui è basata l’aspettativa, è necessario che il soggetto si distacchi da quel che sta facendo per investire di libido la rappresentazione. L’interesse si sposta così sul campo narcisistico, dove il soggetto si rappresenta, distaccandosi da quello reale in cui è. In altri termini, il soggetto si assenta da dove in realtà si trova per trasferirsi libidicamente dov’è solo in effige. La realtà del desiderio è rivolta non al partner, ma alla propria immagine che si separa dalla situazione in posizione d’osservatore.

Il tempo per comprendere (se fossi…) slitta all’infinito e non converge verso la messa in atto della conclusione che è l’essenziale della prova (sono…).

La necessità di vedersi nell’atto indica il bisogno di tenere sotto controllo ciò che altrimenti potrebbe defluire nell’investimento oggettuale. Per non annullarsi nell’Altro il soggetto non si impegna, non mette se stesso come pegno e come posta in gioco nella relazione.

Il soggetto si sottrae, dunque, alla prova: lascia fuori quel che è e la valutazione ricade sulla qualità che presenta, su ciò che ha.

 

Se si sente valutato (o chiede di essere valutato) per i suoi attributi e non per l’essere, assumendo una posizione femminile (l’omosessualità ha un posto importante nell’etiologia dell’impotenza) si manifesta l’impotenza.

Se si nasconde dietro ciò che ha, l’essere dell’organo, incaricato di rappresentare l’avere, viene meno. Lo svanimento soggettivo si produce in effige nell’organo dell’avere. Lasciare fuori gioco quel che si è prende forma come negazione dell’offerta e ribalta sull’altro la prova. Si chiede all’altro la prova dell’amore: il segno che si è amati proprio per quel che non si dà.

 

Freud riprende il problema dell’impotenza nel 1925 in Inibizione sintomo e angoscia. Precisa che la funzione sessuale è soggetta a svariati disturbi, la maggior parte dei quali mostrano il carattere di semplici inibizioni classificate come impotenza psichica.

Il catalogo comprende: la mancanza di erezione, l’eiaculazione precoce, la mancanza di eiaculazione o della sensazione piacevole dell’orgasmo. Altri disturbi possono conseguire dal fatto che la funzione sessuale è connessa con particolari condizioni di natura perversa.

L’impotenza è dunque la rinuncia a una funzione, un punto d’arresto rispetto all’atto, poiché l’esecuzione produrrebbe un’angoscia da cui il soggetto, in tal modo, si preserva. Per questo evita l’orgasmo che, come esperienza soggettiva, è omologo al punto d’angoscia – come precisa Lacan nel seminario del 62-63.

 

Il godimento, inoltre, coincide con la detumescenza e cioè con la messa fuori gioco dello strumento (il pene). Lì, sulla caduta del fallo da cui sorge la dimensione della castrazione, si focalizza la soggettività: il soggetto deve perdere ciò che ha per accedere al godimento attraverso la via del desiderio. È il motivo per cui Freud individua nel coito interrotto una fonte d’angoscia. In questo caso, infatti, per la dinamica stessa dell’operazione, lo strumento sorge nella funzione per poi decadervi improvvisamene poiché non può accompagnare l’orgasmo. L’incremento orgastico viene così slegato dalla messa in esercizio dello strumento. Il soggetto più giungere all’eiaculazione, ma al di fuori, e l’angoscia è provocata da questa messa fuori gioco dello strumento del godimento.

 

Il valore di godimento – scrive Lacan nel seminario su La logica del fantasma – ha il proprio punto di appoggio, il proprio cardine, dove è possibile la detumescenza (e per questo si richiede una previa erezione) che indica il limite del principio di piacere.

La detumescenza, nell’atto sessuale segnala che al di là del limite posto dal principio di piacere c’è godimento.

In tal senso l’eiaculazione precoce (o detumescenza precoce) suggerisce che il soggetto si rifiuti o fugga davanti al godimento che è troppo coerente con la castrazione.

Lacan definisce l’eiaculazione precoce come un lapsus dell’atto sessuale, in cui la detumescenza perde il valore di godimento, è annullata come bene in sé ed è ridotta alla funzione di protezione rispetto al godimento o alla castrazione.

Il soggetto ritiene che l’eiaculazione precoce sia il male minore. Più il tempo si riduce più la fuga è perfetta. Ed è questa – secondo Lacan – la molla delle diverse forme di impotenza.