FONDAMENTI ANTROPOLOGICI DELLA PSICOTERAPIA E DELLA PSICOANALISI    

Insegnamento teorico dell’Istituto Freudiano per la clinica la terapia e la scienza. Alcune lezioni tenute agli studenti del primo anno nel 2000-2001


Amelia Barbui


Percorso storico


Possiamo attribuire ad Erodoto, il fondatore della storiografia occidentale, che si interrogò sulle organizzazioni sociali e familiari e le pratiche religiose dei popoli incontrati nei suoi viaggi,  dandone una dettagliata descrizione, l’emblema di “antenato dell’antropologia”. Il senso del viaggio, per lui, era: visitare, esplorare, osservare, scoprire, domandare, interrogare altre società, senza privilegiare le grandi città rispetto alle piccole, ma trattandole tutte in modo eguale, per cogliere al di sotto dei costumi le convinzioni che le sostengono.

Nei suoi resoconti l’illimitatezza di informazioni, rivolta ai costumi, usanze, leggi – nomoi – che caratterizzano le singole società incontrate, è esposta evitando ogni giudizio. Erodoto nota le loro peculiarità, rispetta le loro differenze e le presenta tutte allo stesso modo – homoios, ne analizza identità e somiglianze, diversità e opposizioni, e gioca sui contrasti.

Questo modo di studiare le società umane gli impedisce di considerare la “barbarie”come una condizione oggettiva, valutabile con criteri etnici o culturali esterni. La “barbarie” viene intesa da Erodoto come un giudizio proferito da un’etnia per affermare la propria identità ed esprime dunque qualcosa di significativo, non su coloro verso cui il giudizio è rivolto, ma su chi lo enuncia. La conoscenza di se stessi avviene attraverso l’Altro.

Tale giudizio prende la forma del seguente enunciato: “Non parlano la nostra lingua”. Quindi: “Loro sono barbari”e, di rimando: “Noi siamo coloro che possiedono i criteri etnici, culturali per giudicarli”. Nominando l’Altro come “barbaro” prende corpo la propria identità, l’adesione ai propri costumi, che non è, secondo Erodoto,  una limitatezza d’orizzonte ma l’indice del fatto che l’incidenza del nomos è profonda.

Vediamo qui prendere corpo l’affermazione di Lacan, secondo cui il soggetto riceve il proprio messaggio dall’Altro in forma invertita.

 

1° passo, con Erodoto, definire il nomos (le proprie usanze) attraverso l’Altro.

 

Il giudizio di barbarie  implica dunque l’esistenza di un modello di verità a cui occorre adeguarsi per far parte dell’insieme delle società “non barbare” che però si definiscono tali solo in forza dell’esistenza di un’alterità, un Altro, esterno, escluso, da cui dipendono .

 

Si apre così il problema della definizione di barbarie.

 

Con un grande salto in avanti, nel tempo, andiamo a vedere cosa ne pensava Montaigne (1533 – 1592): “ Ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi”.

Anche per Montaigne la barbarie non si fonda su dati oggettivi, legati alla presenza/assenza di elementi empiricamente determinabili, ma si tratta di una valutazione, di un giudizio sull’Altro, che, poiché si basa sulla nozione di differenza (ciò che non è nei propri costumi) chiama direttamente in causa colui che giudica.

Ed è proprio su questo elemento, “colui che giudica”, che si incentra l’attenzione di Montaigne  quando si interroga sulle motivazioni del giudizio di barbarie.

Trattandosi di un giudizio, come per Erodoto, la definizione di barbarie è un modo attraverso cui si segnano i confini tra “noi” e gli “altri”, definendo, in tal modo, la propria identità. Tale definizione acquisisce così un valore che va al di là del semplice rilevamento della differenza.

Le motivazioni del giudizio di barbarie posso essere riassunte nel modo seguente:

-       in un primo tempo, servono a segnare i confini, e in tal modo si definisce l’identità

-       in un secondo tempo, l’identità,  così affermatasi, deve garantire se stessa, conservando i confini

-       in un terzo tempo, sorge la necessità di aderire ai propri costumi che divengono, in tal modo, il solo punto di riferimento per la verità e la ragione.

 

Tale successione di eventi ha come conseguenza la creazione di una sorta di “cittadella”, definita dalla cerchia dei propri costumi, all’interno della quale vengono custoditi, come precisa Montaigne, “... la religione perfetta, il governo perfetto, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa”, mentre all’esterno dominerebbe la barbarie.

Le leggi della coscienza nascono quindi dalla consuetudine, dai costumi, dal fatto che “ciascuno, venerando intimamente le opinioni e gli usi approvati e accolti intorno a lui, non può disfarsene senza rimorso, né conformarvisi senza soddisfazione ...”

Se interroghiamo, in termini psicoanalitici, ciò che Montaigne ci propone e consideriamo gli elementi da lui identificati, non possiamo non sentire che c’è una certa assonanza con la struttura del sintomo.

Il sintomo, ricordiamolo, ha la funzione di sorreggere il soggetto, mascherandone i punti di cedimento e, proprio in ciò, individuiamo il tornaconto secondario di questa struttura di compromesso.

 Prendiamone in considerazione gli elementi: i confini, costituiti dai costumi, rappresentano una sorta di involucro formale; l’identità, conservata all’interno della cittadella, è il modo attraverso cui il soggetto si nomina, si fa rappresentare; nel conformarsi ai costumi si produce soddisfacimento, c’è dunque un certo godimento, un tornaconto secondario, nell’aderire a tale struttura. Ne consegue una certa difficoltà ad “uscirne”.

Tale difficoltà è messa in evidenza anche da Montaigne quando scrive che “la forza della consuetudine” ottunde la percezione della propria particolarità, della propria  “stranezza”: “...l’assuefazione indebolisce la vista del nostro giudizio” ci priva cioè della capacità di cogliere la differenza, di riconoscere che anche i nostri costumi sono particolari, “strani”, “barbari” agli occhi degli altri. Barbari, conclude Montaigne, non sono i nostri costumi, o quelli degli altri, ma la difesa ad oltranza, l’esaltazione, delle consuetudini, il non voler accogliere la differenza, l’ottundimento: “Dobbiamo instupidirci per diventare saggi”.

Montaigne vede nell’uscita dai costumi l’unica possibilità di mutamento. E’ questa la via da seguire  per aggiungere qualcosa a quello che già sappiamo.

Il rischio, il prezzo da pagare, il premio o l’obiettivo da raggiungere, a seconda dei punti di vista, è l’irruzione del disordine, dello sconvolgimento generale. In fondo, ciò che viene messo alla prova è una sorta di “orrore di sapere” in quanto l’uscita dai costumi, come nel caso di un sintomo, comporta la messa in discussione della propria identità .

L’uscita dai costumi può portare, come prezzo da pagare, alla follia (morte e distruzione) o, come premio, alla saggezza o alla ragione.

La biforcazione, all’uscita dai costumi, tra follia, da una parte, e saggezza o ragione, dall’altra, non è però intesa da Montaigne come un’alternativa; le due soluzioni manifestano una certa tendenza all’evocazione reciproca. “Da cosa nasce la più sottile follia se non dalla più sottile saggezza?”, si chiede Montaigne.

Il rischio, l’orrore di sapere, riguarda sia la follia, sia la saggezza e concerne propriamente il limite, che funge da protezione al presentificarsi di una mancanza (la castrazione), o di un’interiorità inaccessibile, che ci costringe ad accettare o l’inconsistenza o l’incompletezza del sistema con cui operiamo.

 

Per Erodoto il premio, per l’uscita dai propri costumi, che si raggiunge attraverso il viaggio, è l’acquisizione di saggezza (sophie).

Per Montaigne la frequentazione degli altri ci permette di aggiungere qualcosa a ciò che gia sappiamo e quindi, il premio per l’uscita dai propri costumi è la ragione, l’acquisizione di possibilità.

A questo punto ci scontriamo però con un paradosso in quanto, per Montaigne, la ragione è fatta di costumi, è nei costumi e, al tempo stesso, è attraversamento dei limiti dei costumi, è infrazione, è uscita dai costumi, è fuori dai costumi.

La ragione è, al tempo stesso, un elemento interno ed esterno ai costumi. Se non si accetta il paradosso, che, come vedremo, in psicoanalisi ha un posto fondamentale, occorre scegliere una delle due vie e Montaigne opta per quella esterna.

 

2° passo, con Montaigne, incontro con il paradosso.

 

L’uscita dai propri costumi si traduce, per Montaigne, in un viaggio il cui scopo è “il possesso della diversità”. E il viaggio è la migliore scuola di vita poiché ci mette a confronto “... con tante altre vite, idee, usanze”, abbiamo così più strumenti per “giudicare i nostri costumi”.

La ragione di Montaigne è dunque questo “umano viaggio” nel mondo che ci fornisce gli strumenti per poter giudicare noi stessi, non in base a principi universali, ma in mezzo agli altri, in relazione con gli altri.

Montaigne, come pure Erodoto, seguono la via esterna all’acquisizione del sapere antropologico.

 

C’è anche un’altra via che è possibile percorrere per raggiungere un sapere antropologico. Diversamente dal percorso descritto precedentemente, questa via, che possiamo indicare come “via interna”,  rifugge la molteplicità, evita la variabilità, rifiuta l’incoerenza dei costumi. Perché tale via sia praticabile, occorre individuare un luogo dove variabilità e incidenza dei costumi sia pressoché azzerata.

Il punto di riferimento storico della via interna al sapere antropologico viene individuato da Montaigne in Platone.

Il luogo interno è costituito dal “dialogare interiore” dell’anima con se stessa poiché la verità “si accende all’improvviso nell’anima, come la luce nasce da una scintilla e cresce poi da sola”. Il dialogare nella comunità dei dotti e degli amici ha propriamente lo scopo di far sorgere, dopo molto discutere, tale scintilla.

Platone predilige dunque l’aspetto interno (l’anima, la comunità dei dotti, lo Stato) che, a suo avviso, racchiude il massimo del valore, dove si custodiscono e si coltivano l’ordine, la scienza, l’unità, rispetto all’esterno in cui proliferano la molteplicità, l’apparenza, il disordine.

Dunque: unità e ordine all’interno, molteplicità e disordine all’esterno.

Di conseguenza, per costituire e affermare un ordine teorico, morale, politico, forte che sia in grado di garantire l’ordine, Platone sente l’esigenza di regolamentare sia i viaggi fuori dei confini dello Stato, sia l’ingresso di stranieri al proprio interno: il disordine esterno è una minaccia, un pericolo, dal quale occorre proteggersi.

 “Non vi è nulla di più pericoloso del mutamento”, la via esterna è vista dunque come una minaccia del disordine.

 

Se consideriamo le due opzioni: ordine-via interna-pensiero, e disordine-via esterna-viaggio, con la prima, in cui è importante conservare l’ordine e l’unità sforzandosi eventualmente per rendere innocuo il disordine, si giunge all’idea di uomo nel senso pieno della parola, con la seconda, in cui si reputa valga la pena incontrare il disordine e la molteplicità, in quanto fonti vitali di arricchimento, l’immagine di uomo che ne risulta è di un soggetto straordinariamente vago, vario, sfuggente, su cui è difficile esprimere un giudizio sicuro e uniforme.

Ovviamente la via interna (ordine pensiero) e la via esterna (disordine viaggio) sono due dimensioni che non possono essere regolamentate da un “aut”, l’una non esclude l’altra: non c’è viaggio senza pensiero, o pensiero senza viaggio, non c’è disordine senza ordine e viceversa.

Il viaggio, la via esterna, si svolge lungo un percorso metonimico che si snoda lungo il filo del desiderio di conoscere, con nessi a volte vaghi o indeterminati.

Il pensiero, la via interna, è raffigurabile invece come una sorta di approfondimento, di presa di senso, secondo una struttura metaforica in cui i nessi tra gli elementi garantiscono la stabilità delle costruzioni, dando luogo a una rappresentazione dell’essere.

Tra le due vie ci sono dunque dei punti di intersezione in cui si produce senso, a vantaggio del pensiero, ma il viaggio riprende subito dopo, secondo uno slittamento metonimico, fino a che non si incontrerà un nuovo punto di convergenza, che produrrà un arresto momentaneo al continuo viaggiare.

 

Il fatto che l’antropologia abbia scelto come propri antenati dei viaggiatori e che propenda per la via esterna, potrebbe indicare un certo contrasto con la filosofia che si rappresenta invece nella via interna, ma non è proprio così.

L’esperienza di alterità riguarda, infatti, non solo quelle forme di pensiero che tematizzano l’incontro con gli altri, in cui il sapere è posto al di fuori del soggetto, ma anche, sia pure in modo meno esplicito, la filosofia in cui il sapere è posto all’interno del soggetto. Inoltrandosi in ciò che è più intimamente familiare, il soggetto si smarrisce nell’estraneo. Ciò che è più intimo manca della possibilità stessa di accedere alla rappresentazione risultando irriconoscibile, ed è per ciò stesso estraneo.

 Il sapere è al tempo stesso interno ed esterno: è un punto di estimità.

E’ tuttavia fuor di dubbio che nel pensiero antropologico sia importante l’incontro con la molteplicità anche se tale incontro non può che produrre la crisi, la messa in discussione dell’unità dell’immagine, della propria identità. Sembra che unità e molteplicità siano costantemente ingaggiate in una lotta senza fine in cui possiamo assistere, di volta in volta, al predominio dell’uno sull’altro, ma quel che è chiaro è che “il nemico” non è eliminabile.

Si può accogliere la molteplicità, come ci suggerisce Montaigne, e lasciare che essa ci penetri per trarne arricchimento, forza, vitalità, si può andare a caccia di conoscenza antropologica, frequentando “quella scuola che è la società degli uomini”, non per mostrare sé, ma per conoscerli, ma tutto ciò si traduce in una messa in discussione dell’identità, in una inevitabile modifica delle “leggi della coscienza” in cui ci si identifica, in una crisi, secondo Montaigne salutare, del nostro “noi”.

Il fatto che la crisi possa essere salutare non è condiviso da tutti e infatti il pensiero occidentale si attrezza a difesa dell’irruzione della differenza, rafforzando il senso della propria identità, sostenendo con forza il principio di unità.

Al rischio della molteplicità si risponde, dunque, con il fascino dell’unità.

 

Dopo l’apertura verso la molteplicità incontriamo Descartes che riafferma l’unità ma in un modo che non prevede la chiusura nel proprio mondo, il radicarsi nei costumi locali; la molteplicità è sì una condizione negativa, ma ciò non significa che sia da evitare quanto piuttosto da  superare.

 

A questo punto, possiamo individuare due vie diverse il cui punto di partenza è, in entrambi i casi, l’uscita dai costumi.

Uno è il percorso sostenuto da Montaigne: uscita dai costumi verso altri costumi e raggiungimento della saggezza. La saggezza si acquisisce conoscendo altri costumi e riconoscendo la natura di costume nel nostro stesso modo di pensare.

L’altro è il percorso di Descartes: uscita dai costumi, azzeramento dei costumi stessi e, attraverso tale operazione, raggiungimento della saggezza. Occorre sottrarsi alla presa dei costumi, individuando un “metodo” che consenta di raggiungere l’unità, intesa come nocciolo duro, interno, a cui si può accedere direttamente tramite la ragione.

La saggezza, per Descartes, non coincide né con i costumi, né con il loro attraversamento, ma con l’emergere di strutture naturali, solide, pure, intoccabili. La forza del pensiero di Descartes  sta nel fatto che la via dell’unità, da lui sostenuta, viene intrapresa solo dopo essere passati attraverso l’esperienza della molteplicità.

Descartes percorre due vie esterne: l’una, è una sorta di “viaggio” tra le opinioni contrastanti di autori antichi e moderni; l’altra, è un procedere tra i costumi di vari paesi europei.

Nel Discorso sul metodo scrive: “Conversare con gli uomini di altri secoli è quasi lo stesso che viaggiare. E’ bene sapere qualcosa sui costumi degli altri popoli in modo da giudicare più equamente i nostri e non credere che tutto ciò che è contrario alle nostre abitudini sia ridicolo e irragionevole, come sono soliti fare coloro che non hanno visto nulla.” Fino a qui sembrerebbe allineato al pensiero di Montaigne, ma subito dopo ci mette in guardia. “Quando si dedica troppo tempo a viaggiare si diventa alla fine stranieri nel proprio paese; e, quando si è troppo curiosi di ciò che avveniva nel passato, si resta generalmente molto ignoranti di quel che avviene ai giorni nostri.”

 

Essere “stranieri nel proprio paese”, essere un immigrato nel proprio paese, è come dire che il paese natale è divenuto estraneo e questo è propriamente un problema.

Ricordo che Freud ha affrontato il tema delle estraniazioni in Un disturbo della memoria sull’Acropoli dove ne distingue due forme: o è un frammento della realtà che ci appare estraneo, o è una parte del nostro Io. Nel secondo caso si parla di depersonalizzazione. Le due forme sono strettamente connesse e sono descritte come modalità di difesa dell’Io. Gli elementi nuovi che possono obbligare l’Io alla difesa giungono, nel primo caso, dal mondo esterno reale; nel secondo caso, dal mondo interno dei pensieri e degli impulsi che sorgono nell’Io. In entrambi i casi l’Io si difende dall’indeterminazione, non riconoscendo la verità che lo disturba.

 J.-A. Miller, in Extimité, sostiene che essere un immigrato è lo statuto stesso del soggetto in psicoanalisi. In questo caso l’indeterminazione del soggetto, che ritroviamo nelle estraneazioni, è un momento logico che si percepisce all’inizio di un’analisi, dalla posizione di psicoanalista, quando non si ha nessuna idea di ciò che ci verrà raccontato. Il suggerimento di Freud di iniziare ogni analisi come se fosse la prima, risponde all’indeterminazione del soggetto. Occorre dunque saper sospendere quel che si sa, il sapere costituito, perché se si sorprende il soggetto a partire dal proprio sapere lo si coglie come un io costituito e non come soggetto di una verità costituente, nella propria indeterminazione.

“Il soggetto, come tale, come lo definiamo a partire dal suo posto nell’Altro, è un immigrato – scrive Miller -.  Non ne definiamo il posto nello Stesso. Il solo modo per essere presso di sé è essere presso l’Altro. Il problema è infatti precisamente che per il soggetto questo paese straniero è il paese natale.”

 

L’effetto di straniamento prodotto dai viaggi e dalla conoscenza della variabilità dei costumi induce a “non credere con troppa fermezza” alle idee racchiuse nelle proprie consuetudini che, occorre ricordarlo, occupano lo stesso piano di quelle degli altri; non ha senso, per Descartes, opporre i propri costumi a quelli degli altri e rivendicarne maggiore dignità.

Tuttavia anche se sostiene che non è il caso di indietreggiare di fronte alla molteplicità, l’obiettivo di tale confronto non è la crisi dovuta alla messa in discussione dell’assolutezza dei propri costumi, a vantaggio di un valore relativo e di una minore fiducia in essi, quanto piuttosto l’acquisizione dell’unità dopo la molteplicità, dell’ordine stabile dopo il disordine della variabilità.

La crisi è dunque una fase di passaggio che permette di liberarsi di molti errori, ma ciò che conta è riuscire a trovare, sotto lo strato della sabbia, la “roccia” della “sicurezza”, è coltivare la ragione, è intraprendere, dopo essersi liberati dalla presa delle consuetudini, la via interna verso l’unità e la ragione.

 

Per i sostenitori della via interna, il liberasi dai costumi dovrebbe coincidere con l’affiorare di un ordine sicuro: non il vuoto, ma il pieno; non il vago o l’arbitrario, ma la certezza. In tale contesto, i costumi, in quanto tali, tendono a scomparire e ad assumere, secondo un ordine naturale, il volto della superstizione.

E’ quanto troviamo in Spinoza la cui attenzione è rivolta propriamente ai pregiudizi e alle superstizioni di cui occorre liberarsi bruciandoli alla “fiamma della ragione umana”. Occorre purificare l’intelletto, occorre cioè liberarsi dai costumi (pregiudizi e superstizioni) che sono frutto del predominio delle passioni sull’uomo. Da una parte dunque le passioni che rendono gli uomini “incostanti e mutevoli”, dall’altra la ragione che, nella misura in cui si fa “guida” degli uomini, assicura che “tutti” si accordino in “tutto” in modo che “le menti e i corpi di tutti formino quasi una sola mente e un solo corpo”.

Anche se le passioni vengono ad assumere una connotazione negativa, non si tratta, tuttavia di eliminarle in quanto sono, esse stesse, un elemento della natura umana. Compito della ragione è, piuttosto, ridurre il condizionamento cieco delle passioni sugli uomini; oltrepassando lo stato di ignoranza, legato alle passioni e ai pregiudizi, si è in grado di cogliere la natura dell’uomo che è costituita, per l’appunto, oltre che dalla ragione, dalle passioni. La natura umana viene così a ricoprire la funzione di un Altro completo.

Abbiamo visto che pregiudizi e superstizioni sono il modo in cui vengono definiti i costumi che dunque, secondo questa concezione, sussistono solo quando e in quanto l’uomo è posseduto dalle passioni.

Il fondamento dell’antropologia per Spinoza non consiste più nei costumi ma nella “natura umana” che è possibile conoscere attraverso la ragione e le passioni divengono oggetto di studio: “Occorre trattare i vizi e le stoltezze degli uomini con procedimento geometrico”. Anche le passioni hanno “cause certe” e “proprietà certe”.

Nell’Ethica scrive: “Nulla avviene in natura che si possa attribuire a un suo vizio giacché  la natura è sempre la medesima, e la sua virtù e potenza d’agire dappertutto è una e medesima. Le leggi e le regole di natura, secondo le quali tutto avviene, e si muta da una forma nell’altra, sono sempre le medesime, e quindi una sola e medesima deve pure essere la maniera di conoscere la natura delle cose, quali che esse siano, e cioè mediante le leggi e le regole universali della natura.

Gli affetti, dell’odio, dell’ira, dell’invidia, ecc. considerati in sé, seguono la medesima necessità. Tratterò dunque della natura e della forza degli affetti, e del potere della mente su di essi, col medesimo metodo con cui ho trattato, nelle parti precedenti, di Dio e della mente, e considererò le azioni e gli appetiti umani come se si trattasse di linee, di superfici e corpi”.

Per quanto riguarda l’antropologia assistiamo dunque a una sorta di geometrizzazione: si tratta di “comprendere” le passioni umane con lo stesso atteggiamento di libertà con cui si analizzano le entità matematiche adottando un “ragionamento certo e indubitabile”. Le passioni vengono così considerate “non vizi della natura umana, ma proprietà che spettano alla medesima”.

Perché tutto ciò? Per potersi perdere nella contemplazione della necessità delle cose? Per raggiungere il culmine della saggezza?

Nel programma antropologico di Spinoza la messa in atto di tale meccanismo serve a raggiungere l’ordine della natura umana di cui goderne in eterno. L’ordine, per essere garantito, ha però bisogno di una struttura più ampia, generale e sicura su cui fondarsi, un processo di stratificazione, il cui apice coincide con la stessa divinità, garante ultimo dell’unità.

 

Ma la stabilità così raggiunta non tiene e, nei pensieri di Pascal, la natura umana perde la sua unità e quel carattere di roccia che, nella prospettiva di Descartes e di Spinoza, le consentiva di figurare come fondamento delle nuove costruzioni umane. “Ho una gran paura che questa natura sia anch’essa un primo costume, così come il costume è una seconda natura”, scrive  Pascal, testimoniando la difficoltà incontrata nel gestire la molteplicità una volta che si sia introdotta nella natura umana che non può più essere letta come roccia, unità, stabilità quanto piuttosto come mutamento, variabilità, molteplicità. Questi ultimi sono gli elementi di cui sono fatti gli esseri umani. L’uomo non si distingue più in natura e costumi: “Il costume è la nostra natura”, sostiene Pascal.

Di fronte alla fiducia costruttiva di Descartes o di Spinoza, di fronte ai loro progetti fondati sull’idea di un ordine geometrico, troviamo la sfiducia di Pascal che deriva dal modo in cui analizza la natura umana riconoscendo in essa l’inquietante molteplicità dei costumi come elemento portante e ineliminabile.

Nel momento in cui la molteplicità culturale pervade la natura umana, provoca una perdita di consistenza e un effetto di svuotamento della natura stessa che, di conseguenza, non può più essere un punto di riferimento costante per l’antropologia.

Per fornire una nuova stabilità all’antropologia Pascal si rivolge alla religione, ma anche altre sono le risposte che vengono offerte a questo problema; ne ricordiamo ancora due.

 

Nel suo percorso, il cui obiettivo è di fondare l’idea di una “legge naturale”, Locke si scontra con la varietà dei costumi che, in un certo senso, lo costringe a cambiare strada, e diviene un agguerrito detrattore dell’innatismo. “Chi abbia guardato oltre il fumo del camino di casa – ricorda Locke – non solo può contemplare la molteplicità, ma riconoscere che essa intacca profondamente quei ‘principi di morale’ sui quali, illusoriamente, pensiamo che tutti gli uomini debbano essere d’accordo”. Assistiamo così anche in Locke, come in Montaigne e Pascal, a una sorta di desacralizzazione dei propri costumi che, nel corso del tempo, più divengono “antichi” più rischiano di agire come “regole”, “pietre di paragone”, principi intoccabili.

Rispetto al disperdersi nella molteplicità, che spaventa così tanto e produce questo senso di incertezza, anche Locke individua una “salvezza”, che lui vede nell’uso corretto delle facoltà umane, nel “buon uso della ragione”.

 

Anche Voltaire sembra fare propria la tesi di Montaigne-Pascal sullo svuotamento della natura umana e del suo riempimento con i costumi e l’abitudine. Egli denominerà l’insieme dei costumi con il termine di “cultura”. Diversamente però dagli autori precedenti (Montaigne, Pascal e Locke) che propongono una sorta di commistione tra natura e cultura (i costumi), in Voltaire assistiamo a una separazione logica tra le due entità – la loro sostanza è diversa ed eterogenea, nello stesso modo in cui lo sono il terreno e la vegetazione - pur essendoci contiguità (la cultura si impianta sulla natura).

“Tutto ciò che deriva dalla natura si assomiglia da una parte all’altra dell’universo; invece tutto ciò che può dipendere dal costume è differente (...)

Il dominio del costume è ben più vasto di quello della natura; esso si estende sulle abitudini e sulle usanze; esso diffonde la varietà sulla scena dell’universo.

Invece la natura ha diffuso l’unità, così il fondo è ovunque lo stesso, mentre la cultura vi produce frutti diversi”.

Mentre la natura è fonte d’identità, è principio di unità, è perenne, i costumi sono, frutti variabili, mutevoli, sono ciò che la cultura produce sul terreno della natura. Benché la cultura si manifesti come un’intricata vegetazione, è possibile, scavando nel terreno da cui trae nutrimento, individuare alcuni punti fermi, alcuni nuclei rocciosi, duri e preziosi in cui riconosciamo i “principi invarianti” della natura umana.

Questa definizione concettuale di Voltaire può essere giustamente posta alle origini del pensiero antropologico moderno.

 

Non possiamo concludere il nostro percorso storico senza esserci prima chiesti che ne è dell’antropologia nel pensiero di Kant il quale, in Antropologia pragmatica, fa intendere che c’è una profonda connessione tra viaggio e pensiero.

Kant suggerisce la possibilità che il “viaggiare” possa essere sostituito dalla “lettura dei libri di viaggio” e sostiene che prima di intraprendere il viaggio occorre aver maturato  la “conoscenza degli uomini” che si acquisisce “nelle relazioni con i propri concittadini”. Il pensiero deve, in ogni caso, fornire uno schema, un “piano”, per l’ampliamento della conoscenza dell’uomo che ci si può procurare viaggiando: la conoscenza generale precede la conoscenza locale. Per questo la filosofia può, a ragione, fare da guida all’antropologia, garantendo l’ordine e il rispetto del processo scientifico.

L’antropologia manifesta, secondo Kant, tre difficoltà, dovute alla specificità della natura umana, che riguardano i meccanismi di nascondimento dell’essere:

1.     Difficilmente l’osservazione coglie l’uomo nella sua spontaneità, poiché induce nell’individuo, che sa di essere osservato, imbarazzo o tentativi di inganno.

2.     Anche l’auto osservazione risulta impossibile, poiché gli impulsi sussistono solo se non ci si osserva.

3.     Le “abitudini” costituiscono una “seconda natura” che copre la prima, creando un impedimento al giudizio sulla vera natura dell’uomo e rendendo “molto difficile all’antropologia di innalzarsi al grado di scienza formale”.

Per essere scienza l’antropologia dovrebbe liberarsi della variabilità, propria dei costumi, altrimenti risulta non essere altro che una conoscenza pragmatica, locale, disordinata, arbitraria e piuttosto insignificante. Solo la “cultura della ragione”, l’esercizio della ragione, rende possibile l’uscita dalla molteplicità e dall’arbitrarietà dei costumi verso “l’ordine e la concordia di tutti, anzi il buon andamento della comunità degli scienziati” che costituisce l’isola della salvezza e della verità.

E al di fuori? Certamente esistono altre isole, forse anche felici  ma, si chiede Kant: “Se i felici abitanti di Tahiti, mai visitati da nazioni più civili, nella loro tranquilla indolenza fossero destinati a vivere anche per migliaia di secoli, si potrebbe dare una risposta soddisfacente a questa domanda: perché essi esistono? Non sarebbe stato altrettanto bene che quest’isola fosse stata occupata con pecore e buoi felici anziché con uomini felici nel semplice godimento?”.

Questo interrogativo merita un commento.

E’ evidente che questo tipo di “umanità” non ha per Kant alcun interesse antropologico in quanto non corrisponde ai canoni di umanità da lui formulati. Di conseguenza, il diverso viene espulso: “potrebbero essere animali”; assistiamo a un’operazione di azzeramento dell’ “umanità”. L’equazione che così si scrive è la seguente: “uomini felici nel semplice godimento” = “pecore e buoi felici”.

Il godimento ha sempre costituito un problema e ha sempre suscitato intolleranza.

Kant non sa che farsene di Tahiti poiché rappresenta un’isola di insignificante umanità. Individuiamo qui un’importante discriminante tra il filone più rappresentativo della filosofia moderna e la prospettiva antropologica per la quale non vi sono isole prive di significatività che non valga la pena conoscere nella loro individualità.

 

Non ci è difficile prospettare quali potrebbero essere le conseguenze dell’incapacità di intendere in termini di umanità individui o gruppi che appaiono lontani dai propri criteri, fino a formulare categorie di disumanità entro le quali collocare coloro che non sono considerati degni di essere trattati come uomini.

 

Ne abbiamo un esempio con il nazismo in cui si sono posti limiti netti tra l’umano e il non umano. Evidentemente, per fare questa operazione, è occorso, prima di tutto definire ciò che si presumeva essere autenticamente umano. Dopo di ché è stato facile creare, per esclusione, le categorie di “scarsa umanità” e di “non-umanità”. Nella visione antropologica di Hitler, come rileviamo dai documenti di propaganda nazista, i limiti sono netti. C’è l’umanità autentica: gente bionda, con occhi azzurri, supposta  essere la fonte di ogni capacità di creare le civiltà o costruire gli stati; e ci sono gli ebrei, intesi come “la tubercolosi razziale dei popoli”, come bacilli, virus di cui occorre liberarsi, se si vuole contrastare la degradazione dell’umanità che consiste nell’ “imbastardimento promiscuo di altri popoli” nella “confusione di razze” nella demolizione completa dei “legami di ordine, moralità, usanze”. L’altro da eliminare ha dunque in sé disordine e caos; è un mostro che è fin troppo vicino: può essere il vicino di casa, di lavoro, di città. E’ un essere biologico, anonimo, invisibile, penetrante e letale che minaccia i confini, ma che potrebbe già essere dentro di noi: per questo deve essere fisicamente eliminato.

Il nazismo si configura come un tipico caso di antropologia in azione i cui interventi, nei campi di concentramento, mirano a modellare direttamente, non solo l’umanità, ma anche le forme di subumanità o di disumanità.

Come scrive Primo Levi, si tratta di “una gigantesca esperienza biologica e sociale”, una sorta di esperimento antropologico raccapricciante e orribilmente istruttivo che avrebbe dovuto consentire di “stabilire che cosa sia essenziale” nell’uomo, di enucleare un “meccanismo primordiale” che potesse avere valore universale. L’azzeramento dei costumi, delle consuetudini e delle convenzioni avrebbe dovuto svelare “l’uomo qual è”, la nudità della natura umana.

“Si rinchiudano tra fili spinati migliaia di individui  diversi per età, condizione, lingua, cultura e costumi, e siano quivi sottoposti a un regime di vita costante, controllabile, identico per tutti e inferiore a tutti i bisogni: è quanto di più rigoroso uno sperimentatore avrebbe potuto istituire per stabilire che cosa sia essenziale e che cosa acquisito nel comportamento dell’animale-uomo di fronte alla lotta per la vita”.

Ma i campi di concentramento nazisti hanno solo la parvenza di un esperimento che voglia determinare la natura dell’uomo. Il programma di spoliazione a cui vengono sottoposti gli ebrei ha, in realtà, come esito la distruzione dell’umanità. L’arrivo al campo di concentramento è contrassegnato dall’obbligo di lasciare i propri abiti per indossare degli stracci consegnati dall’organizzazione, dalla rasatura dei corpi, dalla disinfezione, dalla perdita del proprio nome, sostituito da un numero: si perde la rete delle proprie relazioni sociali, l’ambiente linguistico e si viene scaraventati nudi e indifesi in un mondo estraneo e ostile. La testimonianza di Primo Levi ci permette di affermare che non si è trattato della riduzione dell’uomo all’ “essenziale” bensì della sua distruzione.

 

Il razzismo ci insegna che l’odio, non si ferma all’aggressività, che riguarda il piano immaginario, ma ha di mira il reale dell’Altro; lo si odia nel suo essere. Ma cosa suscita l’odio per l’essere dell’Altro? Jacques-Alain Miller sostiene che si tratta dell’odio del godimento dell’Altro, l’odio del modo in cui l’Altro gode, di ciò che gli è più proprio, e ci porta l’esempio del vicino di casa che può suscitare in noi intolleranza solo perché non celebra le festività nel nostro stesso modo. Se le celebra in modo diverso significa che gode in modo diverso e ciò non viene accettato, anche se è evidente che l’Altro abbia la particolare propensione a manifestarsi come non uguale: il modo di godimento è strettamente particolare.

“Quando l’Altro si avvicina un po’ troppo – scrive J.-A. Miller – quando si mescola a voi, si producono nuovi fantasmi che vertono, in particolare, sul sovrappiù di godimento dell’Altro.” Per esempio ci si può fare l’idea che l’Altro trovi nel denaro un godimento che supera ogni limite. “Il sovrappiù di godimento può concretizzarsi nell’imputazione all’Altro di un’attività instancabile, in un gusto eccessivo per il lavoro, ma anche nell’attribuirgli una smisurata pigrizia e un rifiuto del lavoro, che è l’altra faccia del sovrappiù in questione.”

In ogni caso la costante è che l’altro vuole ricavare una parte indebita di godimento e l’intolleranza concerne propriamente il godimento dell’Altro, l’Altro come colui che sottrae il mio godimento.

“Sappiamo – prosegue J.A. Miller – che lo statuto di fondo dell’oggetto è di essere stato sottratto dall’Altro. Questo furto di godimento è ciò che riassumiamo scrivendo il matema della castrazione.

Se il problema può sembrare insolubile è perché l’Altro è l’Altro dentro di me. La radice del razzismo, in questo senso, è l’odio per il proprio godimento. Non ce n’è altra. Se l’Altro è dentro di me in posizione di estimità, è anche ciò che propriamente odio.”

A questo punto possiamo dire che ogni discorso in cui entra in gioco il quantificatore universale, per ogni uomo, come è per il discorso della scienza - il cui scopo è essere antirazzista, antinazionale, antiidiologica -  si scontra con l’inevitabile annullamento delle particolarità soggettive. Di conseguenza non può evitare di promuovere nuove segregazioni. Il discorso universale, attraverso cui la scienza elabora il reale sembra non avere limiti, ma invece ne ha. Dire “noi gli uomini” in fondo è inefficace poiché ciò che è strettamente particolare non è universalizzabile.

 

Antropologia culturale

 

Riprendiamo l’immagine, proposta da Kant, dell’isola della verità o della salvezza, attorno alla quale si estende il mare minaccioso dei costumi, che è così fortemente in assonanza con la struttura del sintomo.

E’ evidente che l’isola sia qualitativamente diversa rispetto al  mare che la circonda, che sia eterogenea, che sia un territorio circoscrivibile, definibile, delimitabile e, proprio per questo, sia una garanzia di sicurezza. La separazione di ciò che è interno da ciò che è esterno ci permette di delimitare un’area in cui si radica la propria cultura o civiltà di cui possiamo rivendicare il senso profondo, distinguendoci così, con un’operazione che assume un senso positivo, dagli altri.

La civiltà è propriamente distinzione: è la scoperta o l’invenzione di un’isola con qualità particolari, diverse dal mare che la circonda.

Il prezzo di questa operazione che non è altro che la ricerca di un equilibrio, di una identità  e di un ideale in cui vediamo prevalere il piano immaginario (chiudendosi in se stessi e cercando di escludere l’Altro) è una certa sterilità, dovuta all’aver circoscritto il territorio e alla conseguente mancanza di motivazione nell’esplorarne altri, e dovuta  all’illusione di aver trasformato un angolo di mondo in un’isola della salvezza e della verità.

 

L’antropologia ci offre un’altra lettura dell’isola: in primo luogo non esiste un’isola a sé, singolare, del tutto diversa da ciò che la circonda. Nel viaggio antropologico incontriamo diverse isole e ciascuna di esse, non essendo una conformazione naturale e quindi inalterabile, è formata con la stessa materia che, apparentemente, la circonda. Di conseguenza l’isolabilità e l’irripetibilità, e cioè ciò che è proprio a ciascuna isola e che ne segna la differenza dalle altre,  è il risultato di un processo di elaborazione e specializzazione della materia comune, come il linguaggio si ordina attraverso la parola.

Strutture formali e costumi non sono dunque più separati e la cultura manifesta un alto grado di “mescolamento” come risulta dalla definizione classica di Tylor che segna la data di nascita dell’antropologia culturale: “Cultura o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume o qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro di una società.”

Il nucleo di tale definizione è dato dall’idea di “insieme complesso” che esclude l’elemento di separazione, che era proprio dell’isola, a vantaggio di un “mescolamento” tra le diverse componenti della cultura. Il costume, che nella metafora dell’isola era il mare minaccioso, è posto insieme alla conoscenza e alla morale, le strutture formali dell’isola.

La conoscenza, come le credenze o il diritto, sono capacità e abitudini che non sono né trasmesse geneticamente, né conquistate cartesianamente nel foro privato della coscienza individuale, ma si acquisiscono nel rapporto con la società, nel rapporto con l’Altro.

La cultura, nella definizione di Taylor, è una caratteristica dell’umanità in quanto tale, comunque si organizzi e ovunque si trovi: non si rinchiude in alcune sfere riservate di attività intellettuale, non è appannaggio di certe società a scapito di altre che in tal caso sarebbero identificate come “selvagge”, ma c’è in ogni società umana. La linea di separazione tra l’isola della verità, dove si coltiva la ragione, e il mare dei costumi strani e bizzarri, cade e ci ritroviamo nella prospettiva erodotea di un viaggio che si snoda tra i costumi, le usanze, le leggi.

La cultura è qui, da noi, come è là, presso gli altri: è un elemento che è al tempo stesso interno ed esterno, è un punto di estimità.

 

Il concetto di estimità offre una soluzione interpretativa alla difficoltà concettuale  relativa a qualcosa che sia al tempo stesso interno ed esterno, al paradosso.

Se nel campo epistemologico si tende a cercare una soluzione che possa escludere i paradossi per non mettere in crisi i fondamenti della scienza, ciò non avviene in campo psicoanalitico i cui fondamenti non sono scossi dalla contraddizione, dal paradosso o dall’incompletezza che, al contrario, ne costituiscono gli assi portanti, le pietre miliari: l’inconscio freudiano ammette la contraddizione. L’edificio psicoanalitico si erige intorno a questi “buchi del discorso”, non certo per mascherarli, per riempirli, quanto piuttosto per evidenziarli, per porre il soggetto di fronte alla realtà della mancanza, della castrazione; per strapparlo all’illusione della completezza, al mito del paradiso perduto o a venire, che lo condanna all’insoddisfazione quotidiana, alla sofferenza del sintomo.

 

Il fatto che il concetto antropologico di cultura,  preveda un’andata e ritorno, un’inoltrarsi nell’alterità e un ritornare nell’identità, come percorso essenziale per capire il nostro “noi”, ci illustra, ancora una volta, l’importanza dell’alterità che non è un ricettacolo di stranezze senza senso, di bizzarrie assurde, di stravaganze illogiche: le stranezze hanno un senso, le bizzarrie una forma, le stravaganze un fondamento. Ciò che si incontra nell’altro è un aspetto diverso attraverso cui si manifesta quella sostanza che ci è comune, di cui noi stessi siamo fatti. Abbattuta la cittadella della ragione e della civiltà, non ci è più possibile spiegare noi stessi se non facciamo ricorso agli altri.

 

L’esteriorità acquista un ruolo imprescindibile e qui riecheggia la funzione ricoperta dall’Altro simbolico che arriva a coincidere con le leggi stesse della cultura e del linguaggio, vale a dire, con un ordine sovraindividuale che determina, in una relazione di dipendenza, l’essere dell’uomo: l’Altro preesiste al soggetto.

I diversi modi di intendere l’esteriorità convergono, in modo significativo, evidenziando il fatto che la “coscienza” o “spirito” dipendano da essa come ritroviamo, per esempio, in Cultura, linguaggio e personalità di Sapir: “Gli esseri umani non vivono soltanto nel mondo obiettivo e neppure soltanto nel mondo dell’attività sociale comunemente intesa, ma si trovano in larga misura alla mercé di quella particolare lingua che è diventata il mezzo di espressione della loro società.”

Se ci interroghiamo su che cosa degli uomini si trovi alla mercé dell’esteriorità, la risposta ci viene fornita, facendo un grande balzo indietro nel tempo, da Vico quando asserisce che sono le menti a essere formate dalle lingue e non le lingue dalle menti di coloro che le parlano.

 

La cultura non è dunque più l’esteriorità, come erano i costumi, che si oppone all’interiorità dell’uomo, ma è l’esteriorità da cui dipende una parte rilevante e decisiva dell’essere umano.

 

Nell’antropologia culturale si sviluppano due diverse prospettive che privilegiano, rispettivamente, uno dei due poli interpretativi del percorso antropologico: la priorità dei significati indigeni, della cultura locale, di ciò che gli uomini dicono nei loro idiomi naturali – prospettiva ermeneutica -, il privilegiare le connessioni interculturali, l’attraversamento dei confini culturali – prospettiva strutturalista.

 

L’antropologia che aderisce al filone ermeneutico (Geertz, Antropologia interpretativa) ha come obiettivo l’avvicinamento progressivo ai significati indigeni, attraverso una serie di tecniche che  permettano di cogliere, senza tradirli o sciuparli, i prodotti culturali che si trovano nelle forme “locali” di conoscenza. E’ dunque una sorta di “resoconto” di significati indigeni, di come altri, in altri contesti, concettualizzino e verbalizzino la loro esperienza, un tentativo di interpretare le “interpretazioni che non sono nostre”, come scrive Geertz, e di trasmetterle.

L’antropologo non deve produrre significati, ma deve esclusivamente riprodurre quelli che sono già dati, deve catturarli ed esporli in modo che siano comprensibili anche ad altri, deve tradurli senza alterarne il senso.

 

Obiettivo di tale operazione è  operare il passaggio dalla cultura locale al pensiero antropologico.

Non basta, allora, considerare l’antropologia come un grande contenitore dove depositare i concetti più strani che gli uomini elaborano nei loro differenti universi sociali, come un ampio registro dove ciascun elemento può trovare posto secondo determinate categorie, come nella prospettiva formalista, ma occorre mettere in gioco anche un altro elemento: il dispositivo dell’identificazione, per “vedere le cose dal punto di vista dei nativi”. Solo così ci si può appropriare delle categorie altrui e dei significati specifici che esse rivestono. A tale proposito Geertz fa propria l’osservazione di Wittgenstein  secondo cui, anche se si conosce la lingua di un paese straniero, il rischio è di non capire la gente in quanto non si riesce a mettersi nei loro panni.

Geertz, pur facendo propria la tesi precedente, ricorda che, in ogni caso l’identificazione è solo parziale, se così non fosse, l’antropologo diverrebbe un indigeno, decadendo dal suo ruolo. Si tratta così di limitarsi ad assicurare il dialogo con gli indigeni per capire il significato dei loro costumi.

“I piccoli fatti parlano ai grandi problemi” e, allora, il significato della azioni quotidiane non può che coinvolgere i grandi problemi del senso della vita e del mondo, che costituiscono, secondo Geertz, un orizzonte permanente e comune dell’umanità.

Per riassumere, il ruolo dell’antropologo consiste nel cogliere i concetti che l’esperienza altrui  produce e di situarli in “connessioni illuminanti” con concetti lontani dall’esperienza creando in tal modo un “continuo rapporto dialettico tra il più locale dei dettagli locali e la più globale delle strutture globali”: il particolare e il generale si illuminano a vicenda.

Nel particolare troviamo i concetti vicini all’esperienza, e cioè il modo, quanto mai vario e imprevedibile, in cui gli indigeni rispondono ai problemi generali: ciò che l’uomo è viene deciso a livello culturale.

Nell’universale troviamo i concetti lontani dall’esperienza, i “problemi  del senso”, come vengono elaborati dai teorici per “cogliere le caratteristiche generali della vita sociale”, che costituiscono punti fermi, inamovibili e indispensabili per dare senso alle risposte particolari.

“I problemi – afferma Geertz – essendo esistenziali, sono universali; le loro soluzioni, essendo umane, sono diverse” e ciò che conta è la varietà delle risposte.

 

 L’importanza che vengono così ad assumere i significati locali produce una sorta di freno nei confronti di possibili astrazioni e ciò porterà Geertz a criticare aspramente la posizione assunta da Levi-Stauss che, al contrario, mira ad individuare una struttura puramente formale  attraverso cui far passare i contenuti empirici e culturali.

 

Nella prospettiva di Geertz non è possibile operare un attraversamento extraculturale  e ciò segna una separazione netta dalla prospettiva strutturalista in cui, al contrario, le diverse culture vengono attraversate e, anzi, l’obiettivo è propriamente travalicare le barriere culturali, che l’uomo stesso ha creato, per ricollocarlo nel contesto naturale dove vigono leggi che egli non ha emesso e dove operano processi che non attendono di essere conosciuti per essere efficaci.

 

Per quanto la biforcazione tra Geertz e Levi-Strauss sia netta è tuttavia possibile reperire un punto di convergenza dovuto al fatto che, essendo l’universalità strutturalmente impossibile, ogni forma di organizzazione non può esimersi dall’adottare criteri particolari.

 

Come ricorda Levi-Strauss, il passaggio dalla condizione infantile a quella adulta  richiede un processo di selezione e di specializzazione. Il pensiero infantile rappresenta il “fondo universale” a cui tutte le società fanno ricorso per darsi una forma. E’ “la somma totale delle possibilità di cui ogni cultura e ogni periodo della storia si limitano a sceglierne una parte, per mantenerle e svilupparle”.

“Scelta”, parola chiave, che implica inevitabilmente l’esclusione, la perdita di altre prerogative, ma solo così, fondandosi su di una scelta, si costituisce una società. Non si può certo fondare una società in cui siano presenti “tutte” le possibilità organizzative rappresentate dal pensiero infantile: se un sistema è completo è inconsistente poiché per essere completo deve racchiudere in sé sia un elemento, sia il suo contrario. Ogni società e ogni cultura sono simili al linguaggio che diviene funzionante solo nel momento in cui si è operata una scelta, una selezione e una specializzazione di alcuni elementi e l’organizzazione, la forma che assume il sistema, è possibile solo adottando alcuni criteri di formazione, ad esclusione di altri.

 

Nel passaggio dalla condizione infantile a quella adulta, così come nella costituzione di una società, ci si scontra sempre con un guadagno a cui fa da contro altare una perdita.

Il guadagno è dato dalla messa in forma di potenzialità originariamente inarticolate, ma ciò implica, e qui misuriamo la perdita, l’abbandono di un cospicuo numero di possibilità che non potrebbero coesistere con la scelta operata. L’universalità si sposta allora sul piano delle possibilità inespresse.

Il fatto che si operi una scelta, che si adottino certi criteri o direzioni, inevitabilmente ci sposta sul piano del particolare e ci costringe ad allontanarci dall’universale. Assistiamo così a una sorta di scollamento tra forma o sistema e universalità.

Se il particolare si coniuga con l’organizzazione, con l’ordine, l’universale non può che ritrarsi verso potenzialità inarticolate e inespresse, là dove l’assenza di selezione lascia ancora il tutto indistinto in una sorta di vuoto strutturale, verso il disordine.

 

Nel linguaggio sono presenti, al tempo stesso, sia l’ordine che il disordine e Lacan cercherà di dare conto di ciò con un’immagine che viene fornita dal gioco del lotto.

I significanti, nella dimensione sincronica, e cioè quando sono tutti contemporaneamente presenti, sono posti alla rinfusa, come le palline che contengono i numeri del lotto, prima dell’estrazione. Nel momento in cui si articola un discorso, vengono estratti dei significanti, e non altri, che si dispongono in una successione temporale al cui principio sta la regola fondamentale della libera associazione. Il significante, attraverso i due assi; sincronico, relativo al linguaggio, e diacronico, relativo alla parola, rende compatibile il disordine e l’ordine e introduce, nella successione, un rapporto di causalità.

 

Né Geertz né Levi-Strauss cercheranno di far convivere ordine e disordine ma entrambi sposteranno la loro attenzione verso la particolarità.

Anche per Geertz, come per Levi-Strauss, l’umanità deve prendere forma e ciò avviene attraverso la particolarizzazione: “Noi tutti – scrive – cominciamo con l’equipaggiamento naturale adatto per vivere mille tipi di vita, ma finiamo con l’averne vissuta una sola”. In altri termini, viviamo quella vita che si è organizzata in base alle scelte che mano a mano abbiamo operato, relativamente al contesto culturale in cui siamo. Di conseguenza, anche in Geertz, come in Levi-Strauss, assistiamo al ritrarsi dell’universalità  nella sfera di ciò che è antropologicamente amorfo e incompiuto, venendo così a coincidere con il marasma delle potenzialità inespresse. Viene così meno la possibilità di rappresentare l’umanità attraverso un modello unitario, universale, e la si può cogliere, di conseguenza, solo attraverso il manifestarsi delle sue diverse forme particolari.

 

La differenza tra l’analisi strutturale e quella ermeneutica consiste nel fatto che, mentre la prima mira all’identificazione della struttura del sistema - e per questo esige che si esca dal singolo sistema per rivolgersi a sistemi omologhi di culture diverse - la seconda, il cui obiettivo è la ricerca di significati, richiede di rimanere nella stessa cultura per poter incontrare fenomeni e categorie di natura diversa rispetto a quelli di partenza.

L’analisi strutturale è un viaggio tra sistemi omologhi di culture diverse.

L’analisi ermeneutica è un approfondimento nella stessa cultura per ricercare fenomeni diversi.

Nella prima c’è un’identità di sistema e una diversità di cultura, nella seconda un’identità di cultura e una diversità di sistema: entrambe le vie sfruttano identità e differenza.


Strutturalismo 


Ci occuperemo ora dello strutturalismo analizzando il saggio di Levi-Strauss,: L’efficacia simbolica, in cui sciamanismo e psicoanalisi sono messi a confronto, e in cui Levi-Strauss formula la tesi, poi ripresa da Lacan,  secondo cui: “l’inconscio è vuoto”.

Levi-Srauss prende in esame il primo grande testo magico religioso della cultura sudamericana in cui viene descritto l’intervento dello sciamano in un caso di parto difficile.

Il canto inizia descrivendo la confusione della levatrice che si reca a chiedere l’intervento dello sciamano il quale, giunto alla capanna della partoriente, inizia ad approntare i preparativi del rito che consistono in suffumigi, invocazioni e, sopra tutto, nella creazione di immagini sacre che rappresentano gli spiriti protettori, i suoi assistenti con i quali si recherà alla dimora di Muu, la potenza responsabile della formazione del feto.

“Il parto difficile – scrive Levi-Strauss – si spiega con il fatto che Muu è andata oltre le sue attribuzioni e si è impadronita del purba o ‘anima’ della futura madre. Così, il canto consiste interamente in una ricerca del purba perduto, che sarà restituito dopo svariate peripezie, quali la demolizione di ostacoli, la vittoria su animali feroci, e in un gran torneo a cui lo scimano e i suoi spiriti protettori sfidano Muu e le sue figlie, con l’aiuto di cappelli magici di cui queste ultime sono incapaci di sopportare il peso. Vinta, Muu lascia scoprire e liberare il purba dell’ammalata; il parto avviene e il canto termina con l’enunciazione delle precauzioni prese perché Muu non possa sfuggire al seguito dei visitatori”. 

E’ interessante rilevare come la lotta combattuta dallo sciamano non sia rivolta Muu stessa, che è la potenza responsabile della procreazione, ma solo contro i suoi abusi che devono essere rimossi. L’intervento dello sciamano non compromette i rapporti con Muu che ritornano subito amichevoli. “L’addio di Muu allo sciamano equivale quasi a un invito: ‘Amico sciamano, quando verrai di nuovo a trovarmi?’.

Alla descrizione dell’evento Levi-Strauss fa seguire un’analisi dettagliata del testo da cui evince che l’intervento dello sciamano è puramente psicologico: il corpo dell’ammalata non viene mai toccato e non le vengono somministrati rimedi. Lo sciamano mette tuttavia direttamente in causa lo stato patologico e la sua sede: “Diremmo volentieri che il canto costituisce una manipolazione psicologica dell’organo malato e che proprio da tale manipolazione ci si attende la guarigione”.

La cura consisterebbe nel rendere pensabile, attraverso i riti e il discorso che lo sciamano fa all’ammalata, una situazione che si presentava in termini affettivi, di sofferenza, e nel rendereaccettabile alla mente dolori che il corpo si rifiuta di tollerare.

Potremmo dire che lo sciamano le “inietta” un mito. Poco importa che la mitologia a cui si riferisce lo sciamano non corrisponda a una realtà oggettiva: l’efficacia del suo intervento si regge sul fatto che l’ammalata ci creda, in quanto è un membro di una società che ci crede.

“Gli spiriti protettori e gli spiriti maligni, i mostri sopranaturali e gli animali magici, convocati nel canto, fanno parte di un sistema coerente che fonda la concezione indigena dell’universo. La malata li accetta o, più esattamente, non li ha mai messi in dubbio. Quel che non accetta, sono i dolori incoerenti e arbitrari che, invece, costituiscono un elemento estraneo al suo sistema ma che, grazie al ricorso al mito, vengono sostituiti dallo sciamano in un insieme in cui tutto ha una ragione d’essere.” E l’ammalata, avendo capito, guarisce.

Niente di simile – osserva Levi-Strauss – accade ai malati delle nostre società, dopo aver loro spiegato la causa della disfunzione. “La ragione di ciò, per quanto possa sembrare paradossale, sta nel fatto che i batteri esistono, mentre i mostri non esistono. La relazione tra microbo e malattia è di causa effetto ed è esterna alla ‘mentalità’ del paziente. La relazione tra mostro e malattia è invece interna a quella mentalità, ne sia essa consapevole o meno. E’ una relazione tra simbolo e cosa simbolizzata, o, per adottare il vocabolario dei linguisti, fra significante e significato.”

 

Lo sciamano, facendo ricorso al mito, mette a disposizione della sua ammalata un linguaggio attraverso il quale lei può trovare il modo di esprimere certi stati a cui non riesce a dare senso, che altrimenti risulterebbero non formulabili. Ciò che prima era inespresso, grazie al mito, assume una forma verbale, viene detto dall’ammalata, che, in questo modo, può vivere in forma ordinata e intelligibile un’esperienza attuale. “Il passaggio all’espressione verbale provoca lo sbloccarsi del processo fisiologico, ossia la riorganizzazione, in senso favorevole, della sequenza di cui l’ammalata subisce lo svolgimento.” Come dire che la paziente si appropria di ciò che precedentemente viveva come estraneo e privo di senso e lo agisce in prima persona.

 

Levi-Strauss trova che questo processo ha alcuni aspetti in comune con la psicoanalisi.

“In entrambi i casi ci si propone di rendere coscienti conflitti e resistenze rimaste sino allora inconsce, sia per la rimozione dovuta ad altre forze psicologiche, sia – nel caso del parto – in ragione della loro natura particolare, che non è psichica, ma organica, o addirittura meccanica.” Potremmo facilmente obiettare a Levi-Strauss l’affermazione che lo porta ad escludere, nel caso del parto, una causa psichica, ma andiamo avanti.

“In entrambi i casi i conflitti e le resistenze si dissolvono non per via della conoscenza, reale o supposta, che l’ammalato ne acquista progressivamente, ma perché questa conoscenza rende possibile un’esperienza specifica, nel corso della quale i conflitti si realizzano in un ordine e su un piano che ne permettono il libero svolgersi e portano al loro scioglimento finale. Questa esperienza vissuta riceve, in psicoanalisi, il nome di abreazione.”

 

Levi-Strauss si riferisce alla definizione di Freud, negli Studi sull’isteria, dove scrive: “Nella parola l’uomo trova un surrogato all’azione, e con l’aiuto della parola l’affetto può essere ‘abreagito’ (può defluire) in misura quasi eguale.”

Nell’abreazione, con la parola, il paziente può dar voce a una situazione mai formulata e ciò avviene grazie al dispositivo del transfert in cui l’analista assume la funzione di presenza reale nei cui confronti si rimette in gioco il non detto.

“Anche nella cura sciamanica – scrive Levi-Strauss – si tratta di suscitare un’esperienza e, nella misura in cui tale esperienza si organizza, certi meccanismi posti al di fuori del controllo del soggetto si regolano spontaneamente per dar luogo a un funzionamento ordinato.

Anche lo sciamano – con la parola invece che con l’ascolto – stabilisce una relazione immediata con la coscienza e mediata con l’inconscio del malato. E’ il ruolo dell’incantesimo propriamente detto.”

Ma in che modo lo sciamano diviene oggetto del transfert?

“Lo sciamano non si limita a proferire l’incantesimo, ma ne è l’eroe, l’attore, poiché è lui a penetrare negli organi minacciati in testa al battaglione soprannaturale degli spiriti, e a liberare l’anima prigioniera.” Diviene così oggetto del transfert, e può indurre nello spirito del malato quelle rappresentazioni che hanno un ordine e danno senso alla malattia.

“Il malato affetto da nevrosi – scrive Levi-Strauss – liquida un mito individuale opponendosi a uno psicoanalista reale; la partoriente indigena supera un disordine organico vero, identificandosi a uno sciamano miticamente idealizzato.”

 

Poco oltre, nel saggio di Levi-Strauss, troviamo un’affermazione che ci può essere particolarmente utile per intendere quali possano essere i fondamenti antropologici della psicoterapia, problema che abbiamo tenuto, fino ad ora, in sospeso: “La cura sciamanica sembra essere un esatto equivalente della cura psicoanalitica, ma con un’inversione di tutti i termini.”

In cosa sono equivalenti e quali sono i termini invertiti?

Sono equivalenti per il fatto che entrambe mirano a provocare un’esperienza e vi riescono ricostruendo un mito che il malato deve vivere o rivivere.

I termini invertiti riguardano l’intervento del “terapeuta” e il mito.

Per quanto riguarda la funzione del “terapeuta”, lo psicoanalista ascolta, lo sciamano parla.

“Meglio ancora: – precisa Levi-Strauss – quando si organizza il transfert il paziente fa parlare lo psicoanalista prestandogli sentimenti e intenzioni supposte; nell’incantesimo, invece, lo sciamano parla per la sua ammalata. Egli la interroga e le fa dire le risposte corrispondenti all’interpretazione del suo stato di cui lei si deve convincere.”

Per quanto riguarda il mito, nel caso della psicoanalisi, esso è individuale ed è quindi il paziente stesso che lo costituisce con l’aiuto di elementi attinti dal suo passato, mentre, nel caso della terapia sciamanica, il mito è sociale, non corrisponde a un antico stato personale, e viene ricevuto dal paziente dall’esterno. Nel primo caso è un mito ritrovato, come un tesoro individuale; nel secondo, è un mito ricevuto dalla tradizione collettiva.

“In realtà – scrive Levi-Strauss – molti psicoanalisti si rifiuteranno di ammettere che le costellazioni psichiche che riappaiono alla coscienza dell’ammalato possano costituire un mito.”

 

Non è il caso di Lacan che, nel seminario sulla relazione d’oggetto ricorda come un mito sia sempre un tentativo di articolare la soluzione di un problema. Il soggetto si spiega il suo essere al mondo in un certo modo, che possiamo indicare come “una prima formulazione”. Tale formulazione tiene fino a quando non intervengono nuovi elementi che entrano in contraddizione con essa rendendo necessaria una trasformazione, un passaggio che può risultare impossibile, un punto di blocco, un problema a cui il mito tenta di fornire una soluzione.

“Non si comprenderebbe niente dei miti di Hans, della sua produzione fantasmatica, - scrive Lacan - se non si riconoscesse loro una necessità strutturale. Levi-Strauss ha dimostrato che si è in presenza, nei miti e nelle varianti di ogni mito, del ritorno degli stessi elementi o dello stesso gruppo di elementi, ma trasformati. Ci si sforzerà invano di scoprirne il senso finché si cercherà di far corrispondere ad un elemento presente nel mito una data significazione. Ogni elemento è concepibile solo in rapporto ad un certo numero di altri, come si vede quando si ordinano le unità costituenti del mito sia orizzontalmente che verticalmente e le si legge come una partitura.”

 

Nel saggio sopra citato, Levi-Strauss si chiede anche da dove derivi il valore terapeutico della cura: dal carattere reale delle situazioni rimemorate o piuttosto dal fatto che nel momento in cui si presentano vengono assunte dal soggetto nella forma di un mito vissuto acquistando, in tal modo, potere traumatizzante?

“Intendiamo dire – scrive Levi-Strauss – che il potere traumatizzante di una situazione qualsiasi non dipende dai suoi caratteri intrinseci, ma dall’attitudine di taluni avvenimenti a indurre una cristallizzazione affettiva che si forma nello stampo di una struttura preesistente. Rispetto all’avvenimento o all’aneddoto, queste strutture, meglio, queste leggi di struttura, sono atemporali: e  il loro insieme formerebbe l’inconscio.” Ne consegue che “l’inconscio cessa di essere l’ineffabile rifugio delle particolarità individuali, il depositario di una storia unica, che rende ciascuno di noi un essere insostenibile. L’inconscio si riduce a una funzione: la funzione simbolica, specificamente umana, che si esercita su tutti gli uomini secondo le stesse leggi e che si riduce, in realtà, all’insieme di queste leggi.”

 

E siamo così giunti alla formulazione centrale del saggio: “L’inconscio è vuoto o, più esattamente, è estraneo alle immagini, quanto lo stomaco ai cibi che lo attraversano. Organo di una funzione specifica, si limita a imporre leggi strumentali, che esauriscono la sua realtà, a elementi inarticolati di altra provenienza: impulsi, emozioni, rappresentazioni, ricordi.”

Definito l’inconscio nella sua funzione simbolica ci si chiede dove si accumuli il vocabolario della storia personale di ciascuno e la risposta è: “il subconscio è il lessico individuale” ma, occorre precisare che “tale vocabolario acquista significato, per noi stessi e per gli altri, solo nella misura in cui l’inconscio lo organizza secondo le sue leggi, rendendolo così un discorso.”

Il vocabolario importa meno della struttura: la forma mitica precede il contenuto del racconto. “Che il mito sia ricreato dal soggetto, come nel caso di Hans, o preso dalla tradizione, sta di fatto che esso attinge dalle sue fonti, individuali o collettive, solo il materiale d’immagini che impiega; ma la struttura resta la stessa, e solo grazie a essa si compie la funzione simbolica.” E ancora: “Le leggi sono le stesse, in tutte le occasioni in cui l’inconscio esercita la propria attività e per tutti gli individui”.

 

L’innovazione portata dall’ipotesi strutturalista ci costringe a distinguere tra l’ordine simbolico, in cui non vi sono che differenze senza termini positivi, e la dimensione delle immagini; tra simbolico e immaginario.

Lacan fa propria la formulazione di Levi-Strauss, secondo cui l’inconscio freudiano è vuoto (la lettera S barrata scrive, per l’appunto, il vuoto dell’inconscio), non è un contenitore di immagini, e dirà che “L’inconscio è strutturato come un linguaggio”. Il sostenere che è strutturato decide del fatto che “è vuoto”, che non è un recipiente, e che non è costituito da realtà già presenti ma la sua realtà consiste in ciò che Levi-Strauss chiama “leggi strutturali”.

Questa posizione decide per un inconscio non sostanziale. Ciò significa  che non vi sono delle sostanze concrete, dotate di proprietà, che possono essere considerate in sé: non c’è qualcosa di costante, di immutato nelle cose che sono apparentemente soggette e mutamento e che fa da supporto alle loro qualità, o accidenti, percepibili dai sensi. Ciò che viene negato è la “sostanza” come supporto materiale di tutti gli attributi. Per fare un esempio prendiamo un’arancia; la priviamo del colore, della sua consistenza particolare diversa dalla mela, del sapore, del profumo. Quel che rimane è la sostanza, ciò che è permanente nelle cose che mutano. Questa tesi non è condivisa dallo strutturalismo.

La concezione secondo cui l’inconscio è vuoto e non sostanziale costituisce un punto importante di connessione tra lo strutturalismo, nella figura di Levi-Strauss, e la psicoanalisi, nella figura di Lacan.

 

L’insegnamento di Lacan affonda le sue radici anche nella linguistica strutturale, riferendosi, in particolare, a Saussure e a Jakobson.

Nel Corso di linguistica generale, Saussure sostiene che “nella lingua non vi sono che differenze”: il meccanismo linguistico ruota intorno a identità e differenza.

A tale proposito, l’esempio proposto da Saussure è il seguente: parliamo di identità rispetto a due treni “Ginevra-Parigi delle 20,45” che partono con un divario di 24 ore. Per noi il treno è lo stesso anche se le carrozze, la motrice, il personale viaggiante sono state cambiate e quindi sono diverse. Il treno è dunque definito dall’ora della partenza e dal tragitto che sono gli elementi che lo distinguono dagli altri treni.

Ne consegue che: tutte le volte che si realizzano le stesse condizioni si ottengono le stesse entità (identità), e che la proprietà intrinseca dell’essere, come pure il fatto di considerarla in sé perde di valore.

Ciò che conta è la struttura di cui l’elemento fa parte, in cui si trova inserito, in cui trova posto (identità), e quindi la differenza che in tal modo si manifesta in rapporto agli altri elementi.

“La lingua – scrive Saussure – è un sistema in cui tutti i termini sono solidali e in cui il valore dell’uno non risulta che dalla presenza simultanea degli altri, secondo lo schema del segno”.

Di che cosa abbiamo allora bisogno per poter determinare il valore, per esempio, di una moneta di 10 franchi?

  1. Che la si possa scambiare con cose diverse (es.: pane, giornali ....)
  2. Che la si possa confrontare con un valore simile dello stesso sistema (es.: una moneta da 1 franco), o con una moneta di un altro sistema (es.: 1 dollaro).

Allo stesso modo, una parola:

  1. può essere scambiata con qualcosa di diverso: un’idea
  2. può essere messa a confronto con qualcosa di eguale natura: un’altra parola.

Il valore della parola non è, dunque, determinato solo in base alla possibilità di “scambio” della parola stessa con alcuni concetti, ma occorre anche confrontarla con valori simili, con altre parole, a cui si può opporre. Ne consegue che il suo contenuto sia determinato da ciò che esiste al di fuori: la relazione con l’alterità è imprescindibile.

Anche per il soggetto vale lo stesso criterio: egli può trovare una propria determinazione, un proprio posto, un proprio valore, una propria certezza, solo se c’è qualcosa di escluso dal suo campo, e cioè se c’è qualcosa a cui non può sostituirsi e che gli si oppone.

 

Ritornando alla parola. Ciò che di essa importa non è il suono in sé, ma le differenze foniche che  permettono di distinguerla da tutte le altre: il suono, per se stesso, non appartiene alla lingua, è un elemento secondario, una materia che la parola mette in opera.

Lo stesso vale per il metallo della moneta da 10 franchi che non ne fissa il valore, ne è solo il supporto tangibile: una moneta che vale nominalmente 10 franchi non contiene l’equivalente del valore del metallo e, inoltre, il suo valore può cambiare nel tempo.

 

In sintesi: quel che conta, per il significante linguistico, sono le differenze che separano la sua immagine acustica da tutte le altre: non viene mai considerato in sé, ma solo in quanto diverso dagli altri e, inoltre, non ci sono termini positivi tra i quali stabilire la differenza.

“Nella lingua – scrive Saussure – non vi sono che differenze senza termini positivi”.

Nella lingua non ci sono né idee, né suoni che preesistono al sistema linguistico, ma solo differenze concettuali e differenze foniche. Ciò è confermato dal fatto che il valore di un termine può modificarsi senza che si sia intervenuti sul suo senso o sul suo suono, ma solo perché un termine a lui vicino ha subito una modifica: la realtà è ridotta a opposizioni senza sostanza.

 

Questa concezione viene estremizzata da Jakobson il quale, analizzando il fonema, giunge alla conclusione che si può formulare tutto a partire dall’opposizione simbolica minima binaria.

Per esempio, in una serie di parole come barca, parca, varca, marca, il fonema iniziale |b| può essere sostituito, alternativamente con |p|, |v|, |m| ed esso risulta: sonoro in opposizione a |p|, occlusivo in opposizione a |v|, non nasale in opposizione a |m|. Il valore del fonema e quindi analizzato per opposizione.

“Tutte le differenze tra i fonemi di una lingua data – scrive Jakobson – possono essere ricondotte a opposizioni binarie semplici e inanalizzabili, di tratti distintivi.”

Lacan conserverà la struttura binaria, come è stata articolata da  Jacobson, per tutto l’arco del suo insegnamento, indicando il minimo di significanti nella coppia S1, S2.


Conseguenze dell'ipotesi strutturalista


El formulazioni che abbiamo sopra indicate vengono in parte riprese da Lacan nel cui testo troviamo una serie di formulazioni che prendono l’avvio dalla tesi strutturalista. Le elenchiamo di seguito.

  • “Nella lingua non vi sono che differenze”. Ne consegue che gli elementi linguistici si combinano tra loro secondo una relazione di rinvio l’uno all’altro, creando, in tal modo, una struttura a catena (schema del segno). Lacan parla di catena significante e a tale proposito propone la tesi secondo cui: “Un significante rappresenta un soggetto per un altro significante”. E’ una formulazione tautologica - in quanto il termine “significante” viene definito da una proposizione che contiene il termine “significante”, come dire: A=A - che però pone in evidenza come un significante rinvii sempre a un altro significante.
  • “La lingua è un sistema di cui tutti i termini sono solidali e in cui il valore dell’uno non risulta che dalla presenza degli altri”. Che gli elementi si definiscano gli uni in rapporto agli altri ci consente di ipotizzare il loro insieme. Lacan parla dell’insieme dei significanti, del tesoro dei significanti, che indica con A.
  • L’opposizione simbolica minima binaria implica che non si possa definire un elemento se non viene opposto a un altro. Lacan, prendendo sul serio tale ipotesi, formula l’ipotesi dell’Altro a cui ci si rivolge, l’Altro come testimone, che indica con A. Con la stessa scrittura, “A”, come vedremo, non a caso, troveremo dunque indicato sia l’Altro in quanto tesoro dei significanti, sia l’Altro a cui ci si rivolge.
  • L’antisostanzialismo produce una mancanza d’essere generalizzata in quanto non si ha a che fare con elementi concreti, isolabili, definibili in quanto tali, ma con la differenza, senza termini positivi. Di conseguenza, la presenza reale diviene un problema e ciò è ulteriormente   evidenziato dal fatto che la relazione di rinvio, da S1 a S2 e così di seguito, istituisce l’altrove come dimensione fondamentale. Lacan recupera  la presenza reale indicandola con “a”, un elemento reale che viene posto al di fuori della struttura del linguaggio. Con “a” scrive la “mancanza d’essere” che non indica solo ciò che fa svanire la presenza, quanto piuttosto il fatto che ogni elemento ha la propria identità fuori da sé, e ciò può funzionare solo nel caso in cui gli enti non abbiano la loro identità.
  • La relazione binaria denota che c’è un posto iniziale e uno finale, che le relazioni implicano dei luoghi. Poiché, inoltre, gli elementi non godono di proprietà intrinseche, ne consegue che le loro proprietà essenziali dipendono dal luogo che occupano nella rete di relazioni. Come abbiamo già ricordato, se un elemento cambia posizione non porta con sé le proprie caratteristiche ma ne acquisisce di nuove che dipendono dal diverso luogo occupato. Viene così sottolineata l’importanza dei rapporti di successione e di permutazione tra gli elementi, cosa che Lacan mette in forma con la coppia ordinata attraverso cui indica il rapporto del soggetto col l’Altro.
  • Dall’ipotesi strutturalista si può dedurre la distinzione tra simbolico, immaginario e reale. Il simbolico è la rete di relazioni che si sostiene, al minimo, nell’opposizione di due elementi. Due è il numero minimo di significanti necessari perché uno rimandi all’altro, in modo che l’Uno si trovi definito dall’Altro nella differenza. L’ordine simbolico non è sostanziale: è una legge che stabilisce, come “la legge del padre”, le relazioni tra gli elementi. Poiché in tale struttura non c’è posto per le rappresentazioni che si producono a partire dalla rete di relazioni, esse vengono collocate nell’immaginario. C’è poi il reale, irriducibile sia alla legge simbolica sia alla rappresentazione che Lacan mette in funzione propriamente come termine escluso, come l’elemento che strutturalmente manca nell’ordine simbolico.

 

Il tallone di Achille dello strutturalismo, come d’altra parte di ogni scienza, è l’espulsione del soggetto dal sistema: la struttura, così come viene intesa dallo strutturalismo, è incompatibile con il soggetto e ciò non è evidentemente accettabile dal pensiero psicoanalitico.

 

Lacan vi introduce il soggetto, ma per fare ciò deve allontanarsi in parte dall’ipotesi strutturalista. Per quanto concerne la struttura della parola, dove si pone il problema dell’interlocutore, si appoggia alla logica hegeliana secondo la quale tra colui che parla e colui che ascolta non c’è simmetria. Chi ascolta è in posizione di padrone in quanto decide il senso di ciò che il parlante enuncia. L’interlocutore, l’Altro, diviene in tal modo un elemento portante della struttura in quanto il soggetto, per designarsi, non può che rivolgersi all’Altro che ascolta e, solo retroattivamente, trovare il proprio statuto: “Tu sei il mio maestro” è il solo modo che il soggetto ha a disposizione per dire, “Io sono il tuo discepolo”.

 

Si individuano così due strutture: il linguaggio, e cioè l’insieme completo dei significanti che li include tutti, che risponde a tutto e che può nominare tutto e la parola, un atto individuale rispetto a cui si pone il problema dell’interlocutore.

 

Lo sforzo teorico di Lacan mira a realizzare l’unità delle due strutture per fare posto al soggetto, ma per realizzare ciò è costretto a considerare l’insieme dei significanti come non completo, in quanto il soggetto, indicato da S barrato, non vi può essere contato che come mancanza, contraddicendo così l’ipotesi strutturalista.

L’Altro diviene, al tempo stesso:

·      Il destinatario che decide il senso di quel che il soggetto dice, sul piano della parola

·      Il luogo del codice che permette di decifrare il messaggio ricevuto, sul piano del linguaggio, relativo all’insieme dei significanti.

Qual è la conseguenza dell’annodamento tra parola e linguaggio?

·      Sul piano della concatenazione significante che si dispiega nella dimensione della parola dobbiamo ammettere che esiste un significante che non appartiene ad A, ossia all’insieme dei significanti. Se infatti vogliamo dare un senso alla formulazione secondo cui “un significante rappresenta un soggetto per un altro significante” abbiamo bisogno di un punto di arresto, di un significante ultimo, in mancanza del quale tutti gli altri non rappresentano niente. Tale significante, per fungere da punto di arresto, non può fare parte dell’insieme dei significanti altrimenti niente impedirebbe un ulteriore rimando a un altro significante. Sul piano diacronico occorre porre un significante ultimo (S2) a cui rimandano tutti i significanti, e tale significante non può appartenere ad A. Tale formulazione contraddice l’esigenza strutturalista di completezza significante sul piano sincronico del linguaggio.

·      Sul piano sincronico, dove A è il luogo del codice, se vogliamo definire il significante dobbiamo sottostare alla condizione che esso appartenga all’insieme dei significanti e quindi possiamo dire che è un significante se e solo se fa parte dell’insieme A di tutti i significanti. D’altra parte, sul piano diacronico siamo costretti a porre l’esistenza di un significante che non appartiene ad A.

 

L’inconsistenza dell’insieme dei significanti, di A, si evidenzia dunque quando viene considerato nella sua duplice dimensione, sincronica  e  diacronica, dove il valore degli elementi dipende sia dal loro rango, sia dall’ordine di successione. Ma il principio di successione porta con sé il principio d’infinito e, come abbiamo visto, di limite: o la catena significante procede indefinitamente nel rimando o esiste un significante ultimo, eterogeneo rispetto agli altri.

L’unione strutturale delle leggi della lingua e della parola pone quindi in evidenza l’inconsistenza di A come insieme di tutti i significanti. Il paradosso così individuato corrisponde a ciò che Freud chiamava ombelico dell’inconscio.

Nella psicoanalisi l’inconsistenza del sistema con cui operiamo, l’inconsistenza di A, non è affatto un inconveniente poiché l’inconscio freudiano ammette la contraddizione.

D’altra parte, quando mettiamo in forma il paradosso logico costitutivo del soggetto ci imbattiamo in una incompletezza, una mancanza che, in termini freudiani va sotto il nome di castrazione.

 

La struttura dei miti

 

Dopo aver indicato quali sono i punti di convergenza e le differenze tra il pensiero strutturalista e la rielaborazione proposta da Lacan per fare spazio al soggetto, prendiamo in esame il saggio di Levi-Strauss: La struttura dei miti per metterlo poi a confronto con la quarta parte del Seminario IV dove Lacan  parla della struttura dei miti nell’osservazione della fobia del piccolo Hans.

Prima di passare all’analisi del testo ricordiamo, in modo schematico, i riferimenti di Levi-Strauss sul mito che abbiamo già incontrato.

 

Funzione del mito: riorganizzazione strutturale; fornire un linguaggio nel quale possano esprimersi certi stati altrimenti non formulabili (passaggio a un’espressione verbale).

 

Nei miti e nelle loro varianti assistiamo al ritorno degli stessi elementi o gruppo di elementi, ma trasformati. Gli elementi non sono dunque interpretabili in base a una data significazione ma occorre leggerli in rapporto agli altri, dopo averli ordinati secondo unità costituenti (mitemi) sia orizzontalmente che verticalmente (come una partitura).

 

Tale interpretazione del mito implica:

-       l’esistenza di una struttura preesistente

-       che le leggi di struttura siano atemporali

-       che il loro insieme formi l’inconscio

 

L’inconscio si riduce a una funzione simbolica (si limita a imporre leggi strumentali); è vuoto o, più esattamente, è estraneo alle immagini (quanto lo stomaco ai cibi che lo attraversano).

 

Il lessico individuale, in cui ciascuno di noi accumula il vocabolario della propria storia è il subconscio. Tale vocabolario acquista però significato, per noi o per gli altri, solo nella misura in cui viene organizzato secondo le leggi dell’inconscio, divenendo in tal modo un discorso.

 

Possiamo dire che il mito:

-       attinge dalle sue fonti (individuali o collettive) solo il materiale d’immagini che impiega

-       la struttura resta, in ogni caso, la stessa

-       grazie ad essa ha una funzione simbolica

La forma mitica precede il contenuto del racconto.

 

“Lo studio dei miti – osserva Levi-Strauss - ci porta a constatazioni contraddittorie. Tutto può succedere in un mito, sembra che in essi la successione degli avvenimenti non sia subordinata a nessuna regola logica o di continuità. Ogni soggetto può avere qualsiasi predicato; ogni relazione concepibile è possibile. Eppure questi miti, in apparenza arbitrari, si riproducono con gli stessi caratteri, e spesso gli stessi particolari, in diverse regioni del mondo.

Da qui il problema: se il contenuto del mito è del tutto contingente, come si spiega che, da un capo all’altro della terra, i miti si assomiglino così tanto? Questa fondamentale antinomia dipende dalla natura del mito.”

Nello studio del linguaggio ci si è scontrati con un’analoga contraddizione quando, accortisi che ad alcuni gruppi di suoni corrispondevano determinati sensi, si è cercato di capire quale necessità interna univa quei sensi a quei suoni e non si è venuti a capo di niente. Gli stessi suoni, in altre lingue, erano infatti collegati a sensi diversi. La contraddizione si è risolta solo nel momento in cui, con Saussure, abbandonata la concezione sostanzialista, ci si è resi conto che la funzione significativa della lingua non dipende dai suoni stessi, ma dal posto che vengono ad occupare nella concatenazione significante.

Il mito fa parte integrante della lingua, ma lo si conosce solo grazie alla parola in quanto dipende del discorso: si definisce in base ai due piani del linguaggio, sincronico e diacronico.

 

Un mito ha sempre a che fare con avvenimenti passati, ma il valore intrinseco che gli viene attribuito dipende dal fatto che questi avvenimenti, che si ritiene debbano essersi svolti in un momento preciso del tempo, formano, al tempo stesso, una struttura permanente che si riferisce simultaneamente al passato, al presente, al futuro.

Per chiarire ciò Levi-Strauss, sostenendo che c’è un’analogia tra l’ideologia politica e il pensiero mitico, chiama in causa la Rivoluzione francese distinguendo la funzione dello storico da quella del politico.

“Lo storico si riferisce a una serie di avvenimenti passati le cui conseguenze remote si fanno ancora sentire attraverso tutta una serie, non reversibile, di eventi intermedi.” E’ il piano diacronico del linguaggio.

“Per il politico la Rivoluzione francese è una realtà di ordine diverso. E’ una sequenza di avvenimenti passati, ma è anche uno schema dotato di efficacia permanente, che permette di interpretare la struttura sociale della Francia odierna e intravedere i lineamenti dell’evoluzione futura.” E’ il piano sincronico del linguaggio.

“Questa duplice struttura, storica e astorica, spiega come il mito possa simultaneamente dipendere dall’ambito della parola (ed essere analizzato in quanto tale) e da quello della lingua (nella quale è formulato) pur offrendo, a un terzo livello, lo stesso carattere assoluto.”

 

Nel mito sono dunque presenti sia il piano diacronico che quello sincronico e le sue unità costitutive, i mitemi, in cui viene sezionato, non sono relazioni isolate, ma fasci di relazioni. Solo nella forma di combinazioni di tali fasci, le unità costitutive acquistano una funzione significante.

Esso viene analizzato come lo sarebbe una partitura d’orchestra la cui lettura ha senso se avviene diacronicamente, secondo l’asse orizzontale, e, nello stesso tempo, sincronicamente, secondo l’altro asse, dall’alto in basso. Tutte le note poste sulla stessa linea verticale formano una grossa unità costitutiva, un fascio di relazioni in cui trovano posto tutte le versioni del mito, tutte le sue varianti.

Organizzata in tal modo l’analisi e la lettura del mito fa decadere l’importanza di una versione autentica o primitiva del mito. “Non esiste una versione ‘vera’ di cui tutte le altre sarebbero copie o eco deformate. Tutte le versioni appartengono al mito”.

 

Il problema dell’autenticità del mito, apre al problema della verità, e Lacan, nel Mito individuale del nevrotico, ricorda come il mito sia il modo attraverso cui la parola può esprimere la verità: “La parola non può cogliersi, né cogliere il moto d’acceso alla verità, come verità oggettiva. Non può che esprimerla a mo’ di mito”.

E che cos’è un mito? “E’ ciò che dà una formula discorsiva a qualche cosa che non si può trasmettere nella definizione di verità, per il fatto che la definizione di verità rimanda a se stessa (circolo vizioso). E la parola (nella forma discorsiva) progredendo la fonda.”

“La parola esprime la verità come mito. In questo senso si può dire che ciò in cui la teoria psicoanalitica concretizza il rapporto intersoggettivo – il complesso di Edipo – ha valore di mito.”

E il mito edipico è il fulcro dell’esperienza psicoanalitica.

 

Un altro elemento importante del mito è la ripetizione in quanto è attraverso essa che si rende manifesta la struttura: “La struttura sincronico-diacronica da cui il mito è caratterizzato permette di ordinare gli elementi in sequenze (file orizzontali) che debbono essere lette sincronicamente (colonne verticali). Ogni mito possiede dunque una struttura a molti piani che traspare in superficie proprio grazie alla ripetizione.”

I vari piani non sono mai rigorosamente identici e teoricamente potrebbero essere infiniti visto che la funzione del mito è: fornire un modello logico per risolvere una contraddizione.

 

Per quanto riguarda il mito di Edipo, esso – secondo Levi-Strauss - offre uno strumento logico che permette di gettare un ponte tra il problema iniziale – nasciamo da uno solo o da due? – e il problema derivato che si può approssimativamente formulare così: il medesimo nasce dal medesimo o dall’altro? “Si tratta pur sempre di capire come uno possa nascere da due: come avviene che non abbiamo un solo genitore, ma una madre e un padre?”

E ritorniamo così al mito individuale del nevrotico dove trovano posto gli elementi del mito familiare che costituiscono “la costellazione  originaria che – come scrive Lacan – ha presieduto alla nascita del soggetto, al suo destino, direi quasi, alla sua preistoria e cioè alle relazioni familiari fondamentali che hanno strutturato l’unione dei genitori”, il cui racconto va a costituire lo scenario fantasmatico della costellazione soggettiva.

A partire dalla “costellazione originaria”, grazie alla reiterazione, in forme diverse, dello scenario fantasmatico, si individua la struttura del mito, o, per dirla con Levi-Strauss, il modello logico con cui il soggetto tenta di risolvere la contraddizione.