Valore zero

Intervento al VIII Rencontre internationale du Champ freudien sul tema: La conclusion de la cure. Variété clinique de la sortie d’analyse. 1994 Pubblicato in spagnolo nella Revista Mundial de Psicoànalisis. Uno por Uno.


Amelia Barbui

 

Vorrei presentare la logica che entra in gioco nella conclusione di un’analisi, come si è evidenziata nel corso di una seconda tranche.

Un incubo, che risale alla seconda analisi, ci permette di individuare gli elementi più rilevanti, relativi alla prima tranche, il cui termine è sancito dalla seconda, durante la quale sono ripresi, in modo più radicale, alcuni elementi che erano rimasti, in un certo senso, in sospeso durante la prima esperienza.

Possiamo dire che la prima analisi terminò, come nel caso del piccolo Hans, con un’uscita attraverso la produzione. Ne prenderemo in considerazione solo un aspetto: quello che si riferisce alla funzione paterna (la figura paterna, e i suoi sostituti, nell’immaginario e nel simbolico).

L’incubo è il seguente.

“Sono in aereo. Mi alzo dal mio posto e vado a salutare qualcuno. Poi torno al mio posto, mi siedo e, improvvisamente, non sento più il rumore dei motori. Si sono spenti. Penso che se fossi in treno non succederebbe niente di grave, solo un po’ di ritardo – a volte accade che il treno si fermi, inspiegabilmente, in piena campagna, ma l’aereo non può spegnere i motori in quota.

C’è un attimo di sospensione, l’aereo mantiene la quota. Capisco che non c’è più niente da fare, che devo farmi passare, in un istante, tutta la vita davanti agli occhi. Poi l’aereo comincia a precipitare. Piega il muso in giù di 80°. Vedo la terra e i prati avvicinarsi rapidamente. Per un istante spero che i motori si riaccendano. Non è così, non ho più tempo per pensare, precipita, si schianta. Mi sveglio.”

Quali sono gli elementi più significativi della sua vita su cui ritorna la sua memoria, per fissarli per l’ultima volta?

Il padre, i fratelli, l’analista, il marito, l’abbandono, la separazione, il non valere niente, lo scotto da pagare per aver deciso di porsi come donna.

 

La prima analisi iniziò nel momento in cui non fu più in grado di far fronte, rifugiandosi nel sonno, a una serie di episodi di depersonalizzazione che insorgevano ogni qual volta si chiedeva cosa pensasse o che intenzioni avesse la gente, cui si sentiva di non appartenere. Pochi mesi prima di iniziare l’analisi aveva subito un’operazione chirurgica di ovariectomia la cui prognosi suonava così: “Se vuoi avere figli, prova a farli subito, se lasci passare molto tempo ti sarà impossibile rimanere incinta”. La paziente visse tale “sentenza medica” come una castrazione reale e non riuscì più a dormire.

La decisione per la scelta del sesso femminile non era stata facile ed era intervenuta, durante l’adolescenza, dopo un lungo periodo in cui aveva ingerito, di nascosto, ormoni maschili che, però, non avevano prodotto in lei alcuna mutazione. Considerati gli evidenti problemi di sviluppo, il padre, medico, le aveva allora prescritto ormoni femminili.

In occasione dell’operazione alle ovaie, il padre non andò a trovarla, si sentì abbandonata: “Esserci o non esserci è lo stesso”.

Viveva in uno stato di angoscia continuo cui faceva da contrappunto un sintomo che l’aveva sempre accompagnata durante la sua esistenza: “Impossibile parlare alla presenza di più di una persona”. Tale sintomo risultò ancora più insopportabile nel momento in cui, a causa dell’operazione subita, il fidanzato, un compagno di università, temendo che si mascolinizzasse, la lasciò. Si trovò così a dover preparare da sola gli esami con il risultato che davanti alla commissione non poteva che fare scena muta.

Perso ogni punto di riferimento (il valore zero, come vedremo, è sempre un punto di riferimento) si rivolse a un analista.

 

Che cosa mette in luce questa prima analisi?

L’enunciato principale, intorno al quale si svolse il lavoro di analisi, “esserci o non esserci è lo stesso”, legando insieme libertà e indifferenza, pone in luce che il valore in cui il soggetto si tiene è zero. Può avere un posto nell’Altro solo se vale zero, solo se si spoglia di tutto, solo se la sua dedizione è totale, fino in fondo.

Trascorse i suoi primi vent’anni a fare per il padre, ma non appena vi distoglieva per un attimo l’attenzione, non appena ciò che lei faceva non coincideva più con quanto il padre le chiedeva, tutto era annullato. Tutto l’operato era revocato, cancellato: tutto era azzerato, non valeva più niente. Nel ’69, durante le manifestazioni studentesche, il padre, che fu capo dei partigiani, amava dirle: “Combatti pure, ma fino a che non ti vedrò sfilare sotto le finestre di casa con i carri armati, non ti crederò”.

Da qui l’estremizzazione della lotta, l’impossibilità di accettare compromessi (il padre era un puro) mai però sufficiente per quel padre, figura troppo importante, ideale irraggiungibile, stimato e temuto al tempo stesso. Con lui non si poteva parlare, si era subito zittiti, impartiva lezioni di medicina a tutti i figli, lei compresa, la più piccola, durante i pasti. Poiché il padre stimava il suo nome importante, quando lei doveva recarsi da qualcuno, imperativamente le diceva: “Vai e di che sei la figlia di …”, cosa per lei insopportabile. Lei per lei valeva zero.

Iscrittasi all’università alla facoltà di medicina, rifiutò fermamente di presentarsi come la figlia di … . Voleva sapere quanto valeva, ma il nome le pesava. Incontrava agli esami gli amici del padre e, per smarcarsi dal nome, con loro litigava: pur tuttavia superava bene gli esami. A quello di fisica la commissione le disse: “Ci spiace, ma siamo costretti, nonostante il suo atteggiamento, a darle trenta”.

 

Schiacciata dal nome, cercava “un piccolo posto” solo per sé. Ma, senza accorgersene, si trovò a occuparsi di compagni cui dedicarsi, come con il padre, sperando però di non incorrere nella revoca o nell’abbandono nel momento in cui il suo desiderio avesse fatto irruzione e la dedizione a loro rivolta si fosse allentata. Lei, d’altra parte, anche dopo sposata continuò, pur non sapendo dire per quale motivo, a mantenere il proprio cognome.

Ed è proprio in questo elemento che possiamo cogliere quel margine di riserva che la salverà dalla dedizione assoluta, dalla morsa mortale del dare tutto in cambio di tutto, in altri termini, dal patto con il diavolo.

Con la prima analisi i fenomeni di depersonalizzazione si rarefecero, riprese a dare gli esami fino al conseguimento della laurea, il parlare non era più un problema insormontabile e, sopra tutto, non si sentiva più schiacciata dal nome del padre, anzi sentiva di doverlo e di poterlo sostenere.

Un momento cruciale di questa prima analisi fu quando emerse il ricordo in cui vide il padre che teneva in braccio un’altra bambina – lei non ricorda di aver mai avuto un gesto di affetto dal padre, per igiene, diceva lui! Lei lo guardò senza dire niente e poi se ne andò. La scena di amore e gelosia descritta da S. Agostino è qui spostata sul padre che ricopre la funzione materna. Un “papà-mamma”- le aveva detto, a tale proposito, l’analista.

E il timore della revoca? Di essere nuovamente scaraventata nel “non vali niente”? Possiamo ipotizzare che nel corso dell’analisi avesse acquistato una certa fiducia in se stessa, e in parte era così.

Aveva trovato un piccolo posto solo per sé nella relazione di transfert e la sua analisi, ne era certa, aveva valore.

Ma c’è un altro elemento, che se è importante per il raggiungimento di un certo equilibrio, è anche un fattore di arresto rispetto all’analisi, come risulterà evidente solo nell’après-coup della seconda tranche.

Prima di terminare l’analisi si sposò. Incontrò un uomo che le dava valore, a cui dare tutto.

“Mi ha fatto bella. Mi consideravo insignificante, se non brutta, non desiderabile, incapace di piacere a un uomo. Le arti femminili mi erano sconosciute, e costui si è dato a me, mi si è affidato.”

Questo, per un lungo periodo, le produsse inquietudine: di notte non dormiva ma vegliava, come le aveva sottolineato l’analista, sentiva che la relazione era molto pericolosa, che avrebbe potuto essere distrutta da lui da un momento all’altro.

Quando lesse sul giornale che Althusser aveva ucciso la moglie, capì che quello sarebbe potuto essere il suo destino. Ma cacciò il pensiero e si mise al lavoro, a realizzare progetti insieme a lui, a dedicarsi a lui.

 

La prima analisi terminò sullo spostamento del transfert di lavoro dall’analista al marito.

Quello che la prima analisi non fu in grado di evidenziare, e che emerse con chiarezza nel corso della seconda, era che lei poteva valere solo se c’era un uomo da aiutare. Ciò era suffragato dal fatto che se solo pensava a “un uomo da aiutare” si innervosiva, tale idea le sembrava inconcepibile e la rifiutava.

 

La seconda analisi iniziò nel momento in cui aveva perduto tutto. L’uomo che l’aveva valorizzata, che l’aveva portata in quota – per ritornare all’incubo -, nel momento in cui lei non corrisponde pienamente alla funzione attribuitagli, si alza dal suo posto, l’abbandona, spegne i motori, e lei si schianta al suolo = valore zero.

E’ il prezzo che deve pagare per aver acconsentito ad aderire alla posizione femminile, per essere diventa madre, nonostante fossero passati molti anni dall’intervento chirurgico, nonostante il verdetto medico. Nel sogno, va a salutare qualcuno, dirige la sua attenzione alla sua bambina.

Capisce che non c’è più niente da fare, che può solo aderire alla separazione. Non può evitare il ritorno allo zero. Sente di dover offrire all’altro il proprio sacrificio. Ma l’ “esserci o non esserci è lo stesso” viene rimesso in gioco nell’analisi.

Perde tutto, si spoglia di ogni difesa immaginaria, e continua l’analisi, nonostante l’angoscia, fino a che si accorge che vivere non necessariamente è vivere per … avere valore. Può forse avere valore anche senza …?

Questo interrogativo le permette di attribuire alla funzione materna, fino allora mascherata dal “papà-mamma”, un valore particolare. Nel mito familiare, come donna poteva valere solo zero.  Sua madre, quando seppe di aver partorito una bambina, pianse, pensando al destino infausto che attendeva la nascitura. Ora, come madre, ha valore senza che qualcuno glielo dia.

 

Nel gioco d’identificazione della privazione primaria - scrive Lacan nel Seminario del 64-65 – non c’è come effetto solo la manifestazione di uno zero iniziale della realtà del soggetto incarnantesi nella pura mancanza. C’è anche, in questa operazione, qualcosa che, sorgendo dalla frustrazione, sfugge alla sua dialettica, un residuo, qualcosa che indica che al livello logico in cui appare lo zero, l’esperienza soggettiva mostra questo qualcosa che chiamiamo oggetto a.

Inizia così per lei, a partire da a, la costruzione di un piccolo posto per sé in sé.